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VISTI PER VOI (visioni a perdere) 3 I più’ GRANDI di TUTTI

I-Piu-Grandi-di-TuttiGiusto ieri ho visto I più grandi di tutti (C. Virzì, 2012).

Ultimamente mi capita di scovare e apprezzare opere che, successivamente, scopro essere stati dei flop dal punto di vista commerciale; qualcosa vorrà dire.

Diciamo subito che ho trovato questo film godibilissimo. E diciamo che non sarebbe stato così godibile senza quell’ineffabile parlata livornese che permea la sonorità dei dialoghi, che richiama suggestioni del vernacoliere, del troio, ecc.

La trama: il giovane di ricca famiglia Ludovico (C. Fortuna), rimasto paralizzato in un tragico incidente, dove perde la fidanzata, coltiva il mito dalla rock band Pluto. L’incidente avvenne al ritorno da un loro concerto. La ricerca di senso di quella tragedia costituisce l’innesco della vicenda: il giovane rintraccia i componenti della band, disciolta da parecchi anni, per realizzare un documentario e organizzare una reunion. 

I musicisti non si erano lasciati tanto bene; rancori, conti in sospeso. Del resto sono persone dai caratteri diversissimi: il batterista (A. Roja) timido e impacciato; il cantante (M. Cocci) simpatico sbruffone anarcoide; il chitarrista (D. Cappanera) burbero e scontroso; la bassista (C. Pandolfi) grintosa e decisamente più affascinante che in Ovosodo. Completano il cast il collaboratore di Ludovico (F. Hi-Ngr Mc) e sua madre (C. Spaak, decisamente più affascinante che in La voglia matta. Che ci volete fare, ognuno ha i suoi gusti; senza scadere nel milf). A proposito, pare che uno dei motivi del dissidio fra due componenti del gruppo fosse che uno aveva trombato la madre dell’altro. Pertanto risulta molto difficoltoso ricomporre l’armonia nella band. Tuttavia, da un lato il generoso compenso pecuniario che si prospetta, dall’altro la pietà suscitata dal genuino entusiasmo dimostrato da quel loro inopinato fan (entusiasmo destinato a scemare, “visti da vicino sembrano dei poveri coglioni”) alla fine i quattro si prestano a una video intervista davvero esilarante (non ricordando nulla del loro passato musicale improvvisano risposte imbarazzate) ed a un concerto finale davanti a un pubblico prezzolato.

In questa opera seconda Carlo Virzì, fratello del più noto Paolo, mette in scena con garbo e ironia l’incrocio fra esistenze precarie e disilluse sullo sfondo della quotidianità di provincia con la vita di una famiglia ricca e infelice. Decide un titolo parossistico ma realistico: i Pluto sono davvero ‘i più grandi di tutti’, per chi ci crede. Mette in scena il tema che chiamerei della ‘diavolina’, dell’innesco. Innesco che cambia il corso delle vite, incontri casuali, eventi, eterogenesi dei fini.  Il pubblico pagato, non pagante, che va al concerto dei Pluto lo fa solo per denaro, comparse per 50€. Ma alla fine si entusiasma per davvero, perché i Pluto sono davvero forti, sono bravi, hanno talento. Ma non lo sanno. Ludovico lo sa ma è già oltre. Non assiste nemmeno al concerto, lo organizza solo per loro. E’ già pronto a sacrificarsi altruisticamente per un’altra ambizione, quella della madre che lo porta in Australia per un viaggio della ‘speranza’ che lui non coltiva affatto. Forse ha capito che per dare un senso a quella tragedia che è la vita, con o senza sedia a rotelle, il suo ruolo è quello della diavolina.

VISTI PER VOI (visioni a perdere) 2 REALITY

 realityGiusto ieri ho visto Reality (M. Garrone, 2012).

Il padre di famiglia Luciano (uno straordinario A. Arena, andatevi a guardare la sua biografia), pescivendolo napoletano, conduce un’esistenza apparentemente serena con moglie e tre figli, parenti e amici. Tuttavia qualcosa cova sotto la cenere, pronto ad esplodere. L’innesco, come sempre, è casuale. Un provino per il Grande Fratello in un centro commerciale, il tempio del nostro tempo. Superata la prima selezione, Luciano viene chiamato a Roma per un’ulteriore scrematura dei concorrenti. Convinto di aver fatto buona impressione, da questo momento perde il lume della ragione; entra nel tunnel della paranoia, della follia. In attesa della ‘chiamata’ vende la pescheria, vede ‘segnali’ ovunque, nella convinzione che il GF occulto lo stia mettendo alla prova, per vedere se è meritevole di entrare in ‘paradiso’.

Garrone, dopo aver raccontato l’orrore della camorra in Gomorra (uno dei rari casi in cui il film risulta ancora più riuscito, a mio parere, del libro da cui è tratto) qui prova a descrivere un orrore se possibile ancora più grande : l’orrore della televisione. Questo mass medium apparentemente innocuo e rassicurante ma in realtà subdole e feroce. “Non conosco niente di più feroce della banalissima televisione” diceva Pasolini. E parliamo degli anni ’70, non aveva visto ancora niente! Noi lo vediamo cos’è oggi la televisione.

Sento già la scontata, superficiale, solita obiezione: “se non ti piace basta cambiare canale… basta spegnerla”. Non basta affatto che io la spenga perché nelle altre case essa continua a troneggiare in salotto, in cucina, in camera da letto, sempre accesa, sempre ‘viva’, sempre all’opera, come un ininterrotto rumore di ruscello in sottofondo, col suo ininterrotto lavorio teso a modellare quella società in cui io vivo, lavoro, interagisco, respiro.

Il film inizia con un’inquietante inquadratura dall’alto delle pendici del Vesuvio, fittamente abitate. Una scena che fa rabbrividire al pensiero della catastrofe umanitaria (altro che Lampedusa) che è matematicamente certo si realizzerà (il dubbio riguardo solo il quando, non il se). Richiama il collasso ambientale e finanziario globale altrettanto certo (solo non si sa quando). L’inevitabile ‘scontro di civiltà’ determinato dagli insopportabili squilibri nord/sud del mondo.

Tutti disastri certi ma non annunciati, perché non vanno annunciati. Vanno coperti, sopiti, occultati dalla sovrastruttura. La sovrastruttura copre la struttura, le sta etimologicamente sopra e impedisce di vederne le storture, anzi ormai le putrescenze. La sovrastruttura principe in questa nostra apparentemente sana società è: la televisione.

Per ‘salvare’ Luciano, coloro che lo circondano e gli vogliono bene, coloro i quali ‘appaiono’ più savi e avveduti di lui, provano a dirottarlo verso un’altra sovrastruttura: la religione. Una sovrastruttura che presenta affinità col suo reality preferito: un’entità che ti osserva di nascosto, ti giudica, ti controlla, ti valuta meritevole o meno di entrare nel ‘regno dei cieli’. La differenza è che la sovrastruttura religiosa si alimenta di promesse supportate da secolari liturgie, cattedrali, affreschi anziché palinsesti, spot, ipermercati, ma il meccanismo di controllo sociale è analogo.

Tuttavia Luciano, durante la Via Crucis al Colosseo, sfugge al controllo di questa promessa di redenzione, si dilegua per inseguire la ‘sua’ promessa, quella che gli è stata più efficacemente inculcata dalla tv, e nel finale, in una dimensione onirica, riesce a penetrare nella Casa e lì si adagia, raggiungendo il ‘suo’ paradiso.

Se c’è un campo nel quale l’Italia è all’avanguardia rispetto all’Occidente è la pervasività della televisione nella vita sociale. Con un affollamento pubblicitario fra i più alti del pianeta, Stati Uniti compresi. Pensiamo a un cittadino italiano nato negli anni ’80 e a quante ore di spot ha assorbito fino ad oggi e come ne è stata alterata la percezione della realtà.

Se c’è una differenza fra fascismo e berlusconismo è che il primo voleva temprare il popolo, con le cattive, col manganello, esaltandone l’arditismo, la virilità, l’obbedienza, il patriottismo. Il secondo invece ha deliberatamente ammosciato il popolo, con le ‘buone’, con le tv, esaltandone gli antichi vizi, la presunta furbizia, l’individualismo, l’opportunismo, la vigliaccheria, il vittimismo. Ha forgiato un popolo di rammolliti, superficiali, corrivi, sciatti.

Quella sciatteria culturale che consente di costruire ai piedi di un vulcano attivo. Di concepire e accettare leggi e accordi criminali e criminogeni per fronteggiare un fenomeno epocale come l’immigrazione. Allargando l’orizzonte a livello internazionale, di accettare che il pianeta sia inondato da prodotti tossici, per l’ambiente come per la finanza. Tutto coperto dalla sovrastruttura che devia, distrae, sopisce. Mentre sotto ribolle l’inferno.

Si tratta di un processo portato avanti dall’intero Occidente, beninteso, ma che vede l’italia come punta di diamante in questa deriva. Già Debord definiva il nostro Paese come laboratorio avanzato della società dello spettacolo. Infatti siamo all’avanguardia anche nel declino dell’Occidente. “A Washington d.c. non sanno che la loro fine si sta consumando nei dintorni di Lissone in Brianza” scrive Genna in Fine Impero.

Oggi, a parti rovesciate rispetto al passato, è la struttura ad essere determinata dalla sovrastruttura. E’ quest’ultima dunque che va aggredita, decodificata, smascherata, destrutturata. Come, a mio avviso, riesce a fare bene questo film.

VISTI PER VOI (visioni a perdere) 1 LO SCATENATO

loscatenatoGiusto ieri ho visto Lo scatenato (F. Indovina, 1967). Credevo di aver visto tutte le commedie italiane anni 60/70, tuttavia questa mi era sfuggita e sono lieto di aver colmato la lacuna.

Il film narra delle vicende di un attore di spot pubblicitari (V. Gassman)  che vede pregiudicata la sua carriera entrando in collisione col mondo animale. Film profetico (ricordiamo che siamo solo alla fine degli anni ’60) che affronta ironicamente il mondo della pubblicità. Un mondo sul quale oggi non si può certo scherzare, sarebbe blasfemo: la pubblicità è sacra (infatti oggi un film così non potrebbe uscire), un mondo che oggi domina il mondo stesso; viviamo, per chi ancora non se ne fosse reso conto, in un contesto di pubblicità fatta mondo. La cultura, l’informazione, l’intrattenimento non possono in alcun modo prescindere dagli ‘inserzionisti’, che sono gli autentici kingmakers nelle società ‘moderne’, poiché lo scopo ultimo di queste ultime è proprio ‘vendere’. Per ‘vendere’ è necessario creare un bisogno, indurlo attraverso tecniche ben collaudate che fanno ricorso principalmente alle ‘immagini’, e secondariamente ai suoni, e successivamente ancora alle parole. Il presupposto per creare un bisogno è creare insoddisfazione; si può quindi ben affermare che mission primaria della pubblicità sia formare individui e famiglie insoddisfatte. Il bacino cui attingere, il target, è costituito da persone infelici, e quanto più sono infelici tanto più saranno sensibili alle lusinghe del consumismo che, viene ben spiegato dagli spot, potrà ben lenire le loro pene.

Film profetico, si diceva, poiché illustra il grottesco divenire del protagonista, prima beneficiato dal successo e via via ridotto in rovina e in schiavitù (finirà in gabbia allo zoo, accettando le noccioline) dalla persecuzione (reale o immaginaria) di quel lato bestiale che alberga in ognuno di noi. Significativa la sequenza in cui si reca a chiedere lumi a un esperto che reclude formiche (che gli danno dell’idiota) e che gli consiglia il Mein Kampf per risolvere i suoi problemi.

Profetico e irripetibile, dunque, poiché la pervasività pubblicitaria, con il suo carico di infelicità e insoddisfazione, oggi renderebbe impossibile concepire simili opere, e semmai concepite non troverebbero ‘mercato’ in una società senza orizzonte. Senza orizzonte come Il trionfo della morte di Bruegel, come Il trittico del millennio di Bosch, quell’inferno preconizzato nel ’500 che insiste sull’eterno presente, sulla coazione a ripetere, a vendere e consumare, vendere e consumare, niente porta a niente. Quella profezia che, come dice Berger nel suo Contro i nuovi tiranni, annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media sotto l’impatto della globalizzazione, con il suo criminale bisogno di vendere incessantemente.