Giusto ieri ho visto Reality (M. Garrone, 2012).
Il padre di famiglia Luciano (uno straordinario A. Arena, andatevi a guardare la sua biografia), pescivendolo napoletano, conduce un’esistenza apparentemente serena con moglie e tre figli, parenti e amici. Tuttavia qualcosa cova sotto la cenere, pronto ad esplodere. L’innesco, come sempre, è casuale. Un provino per il Grande Fratello in un centro commerciale, il tempio del nostro tempo. Superata la prima selezione, Luciano viene chiamato a Roma per un’ulteriore scrematura dei concorrenti. Convinto di aver fatto buona impressione, da questo momento perde il lume della ragione; entra nel tunnel della paranoia, della follia. In attesa della ‘chiamata’ vende la pescheria, vede ‘segnali’ ovunque, nella convinzione che il GF occulto lo stia mettendo alla prova, per vedere se è meritevole di entrare in ‘paradiso’.
Garrone, dopo aver raccontato l’orrore della camorra in Gomorra (uno dei rari casi in cui il film risulta ancora più riuscito, a mio parere, del libro da cui è tratto) qui prova a descrivere un orrore se possibile ancora più grande : l’orrore della televisione. Questo mass medium apparentemente innocuo e rassicurante ma in realtà subdole e feroce. “Non conosco niente di più feroce della banalissima televisione” diceva Pasolini. E parliamo degli anni ’70, non aveva visto ancora niente! Noi lo vediamo cos’è oggi la televisione.
Sento già la scontata, superficiale, solita obiezione: “se non ti piace basta cambiare canale… basta spegnerla”. Non basta affatto che io la spenga perché nelle altre case essa continua a troneggiare in salotto, in cucina, in camera da letto, sempre accesa, sempre ‘viva’, sempre all’opera, come un ininterrotto rumore di ruscello in sottofondo, col suo ininterrotto lavorio teso a modellare quella società in cui io vivo, lavoro, interagisco, respiro.
Il film inizia con un’inquietante inquadratura dall’alto delle pendici del Vesuvio, fittamente abitate. Una scena che fa rabbrividire al pensiero della catastrofe umanitaria (altro che Lampedusa) che è matematicamente certo si realizzerà (il dubbio riguardo solo il quando, non il se). Richiama il collasso ambientale e finanziario globale altrettanto certo (solo non si sa quando). L’inevitabile ‘scontro di civiltà’ determinato dagli insopportabili squilibri nord/sud del mondo.
Tutti disastri certi ma non annunciati, perché non vanno annunciati. Vanno coperti, sopiti, occultati dalla sovrastruttura. La sovrastruttura copre la struttura, le sta etimologicamente sopra e impedisce di vederne le storture, anzi ormai le putrescenze. La sovrastruttura principe in questa nostra apparentemente sana società è: la televisione.
Per ‘salvare’ Luciano, coloro che lo circondano e gli vogliono bene, coloro i quali ‘appaiono’ più savi e avveduti di lui, provano a dirottarlo verso un’altra sovrastruttura: la religione. Una sovrastruttura che presenta affinità col suo reality preferito: un’entità che ti osserva di nascosto, ti giudica, ti controlla, ti valuta meritevole o meno di entrare nel ‘regno dei cieli’. La differenza è che la sovrastruttura religiosa si alimenta di promesse supportate da secolari liturgie, cattedrali, affreschi anziché palinsesti, spot, ipermercati, ma il meccanismo di controllo sociale è analogo.
Tuttavia Luciano, durante la Via Crucis al Colosseo, sfugge al controllo di questa promessa di redenzione, si dilegua per inseguire la ‘sua’ promessa, quella che gli è stata più efficacemente inculcata dalla tv, e nel finale, in una dimensione onirica, riesce a penetrare nella Casa e lì si adagia, raggiungendo il ‘suo’ paradiso.
Se c’è un campo nel quale l’Italia è all’avanguardia rispetto all’Occidente è la pervasività della televisione nella vita sociale. Con un affollamento pubblicitario fra i più alti del pianeta, Stati Uniti compresi. Pensiamo a un cittadino italiano nato negli anni ’80 e a quante ore di spot ha assorbito fino ad oggi e come ne è stata alterata la percezione della realtà.
Se c’è una differenza fra fascismo e berlusconismo è che il primo voleva temprare il popolo, con le cattive, col manganello, esaltandone l’arditismo, la virilità, l’obbedienza, il patriottismo. Il secondo invece ha deliberatamente ammosciato il popolo, con le ‘buone’, con le tv, esaltandone gli antichi vizi, la presunta furbizia, l’individualismo, l’opportunismo, la vigliaccheria, il vittimismo. Ha forgiato un popolo di rammolliti, superficiali, corrivi, sciatti.
Quella sciatteria culturale che consente di costruire ai piedi di un vulcano attivo. Di concepire e accettare leggi e accordi criminali e criminogeni per fronteggiare un fenomeno epocale come l’immigrazione. Allargando l’orizzonte a livello internazionale, di accettare che il pianeta sia inondato da prodotti tossici, per l’ambiente come per la finanza. Tutto coperto dalla sovrastruttura che devia, distrae, sopisce. Mentre sotto ribolle l’inferno.
Si tratta di un processo portato avanti dall’intero Occidente, beninteso, ma che vede l’italia come punta di diamante in questa deriva. Già Debord definiva il nostro Paese come laboratorio avanzato della società dello spettacolo. Infatti siamo all’avanguardia anche nel declino dell’Occidente. “A Washington d.c. non sanno che la loro fine si sta consumando nei dintorni di Lissone in Brianza” scrive Genna in Fine Impero.
Oggi, a parti rovesciate rispetto al passato, è la struttura ad essere determinata dalla sovrastruttura. E’ quest’ultima dunque che va aggredita, decodificata, smascherata, destrutturata. Come, a mio avviso, riesce a fare bene questo film.