LETTI PER VOI (recensioni a perdere) 6

In un piovoso week end repubblicano ho letto L’inumano (M. Parente, Mondadori, 2012).

Un’opera che non esiterei a definire una cagata pazzesca se non fosse questo, come temo, l’effetto che lo stesso autore si proponeva di ottenere. Pertanto mi limiterò a dire che si tratta di un testo di un’ingenuità imbarazzante.

La trama, piuttosto banalotta, narra in definitiva di un ininterrotto flusso di coscienza di un nichilista, casualmente omonimo dell’autore, che spinto dal proprio editore si prostituisce presso i giurati di un noto premio letterario, finendo col cacciarsi nei guai (per usare un eufemismo).

Onestamente bisogna riconoscere che il Parente la pagina la fa girare, 275 pagine bevute d’un sorso, sebbene troppi risultino alla fine i riempitivi pornotrash, i continui rimandi a insulse esperienze televisive e pippe mentali (e non solo mentali) di un narcisista che ha elevato la propria sacrosanta ecceità al di sopra di tutti gli universi. Anche Bukowski ci metteva del sesso per aumentare le ‘tirature’, e questo espediente furbetto si potrebbe anche perdonare, se non si esagerasse come in questo caso dove il sesso, più che le ‘tirature’, provoca sbadigli.

Tuttavia lo stile è gradevole, forte, deciso, denota carattere, personalità, virilità (…) e in determinati spunti ricorda il primo Busi.

Ciò che fa cadere le braccia (e anche le gambe…) è la ‘sostanza’, il messaggio del romanzo. Il Parente (intendo non l’autore che, mi piace pensare, come Gide nell’Immoralista, ha scritto quest’opera per non fare la stessa fine del suo protagonista) ci rivela sbandierandola come fosse la scoperta del secolo ciò che ogni adolescente di media intelligenza dovrebbe aver già capito prima di fare il suo ingresso nell’età adulta. Ovvero che tutto è niente, che dio, l’amore, la verità sono invenzioni, menzogne, non esistono. Che la nostra esistenza è il frutto casuale di mere combinazioni molecolari risalenti a miliardi di anni fa. La scoperta dell’acqua calda. E tuttavia questa grande scoperta viene vantata come punto di arrivo della consapevolezza umana, mentre ogni persona avveduta sa che è solo un punto di partenza. Altrimenti avrebbe ragione quel personaggio di Zelig (quello di W. Allen, intendo) che in punto di morte spiega cos’è la vita: “figliolo, la vita è un incubo di orrore senza senso”. E’ fuori discussione che la vita umana, come qualsiasi altra cosa nell’universo, non abbia senso. Ma qui sta il bello. Come diceva Ivan Karamazov “io amo la vita proprio perché non ha senso”. Parente vede solo la minaccia e non la meravigliosa opportunità. Il fatto, incontrovertibile, che la verità non esiste rende la vita meravigliosa, perché ci dà l’opportunità di deciderla noi, la verità. Senza rendere conto a nessuno. Per es. anche se, anzi, proprio perché l’amore non esiste, decidiamo noi chi amare, e lo amiamo davvero, perché lo abbiamo deciso noi. Altro esempio: se ci intriga il mito della Resistenza e abbiamo deciso che il nazifascismo è il male assoluto, siamo disposti a difendere anche con le armi in pugno questo nostro capriccio, a prescindere dalla verità storica assoluta, che come ogni verità non esiste. Chiaro?

Insomma, questo romanzo si ferma al primo step, arriva a una conclusione senza trarne le conclusioni. È il flusso di coscienza di un ridicolo, perché inconsapevole, integralista della religione della biologia. Di uno che ha sposato il dogma della scienza degli uomini. Insomma di uno che ha poca fantasia.

Ma forse mi sbaglio. Come diceva D. Lessing, si scrivono storie non per fornire un significato, ma per lasciare che sia lo stesso lettore a trovarne uno, anzi, a deciderne uno, o più. Lo scrittore è come dio, che crea e poi lascia libertà di interpretazione circa la sua creazione. Allora, nella mia veste di lettore recensore decido che quel maialino che parla nel buco è solo un feto nell’utero, che ha già capito tutto, che sta per uscire consapevole di ciò che l’aspetta; e la parola finale che manca per chiudere (iniziare) il romanzo è ‘vita’, βιος.

2 giugno 2012

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