Ognuno frequenta i suoi luoghi mitopoietici. Pur non disdegnando i parcheggi dei supermercati, ieri sera sono tornato alla ‘taverna dei cattivi maestri’ e ho trovato il solito tizio, sempre più sbronzo, che pontificava a fronte di una ghenga sempre più numerosa.
L’avidità, ça va sans dire, è negativa. Non è solo il riflesso delle nostre radici cristiane, oltre che le nostre reminiscenze dantesche, a rimandarci al link fra avidità e egoismo. E’ intuitivo che chi sposa uno stile di vita avido ed egoista, con l’aggravante, se ricopre ruoli di responsabilità, di informare l’intera società a quello stile, è destinato a subire il giudizio divino e a contorcersi in sofferenze infernali per l’eternità, giustamente aggiungo io da ateo. Ma tralasciamo la dimensione trascendentale; non ci prefiggiamo il compito, di per sé meschino, di gestire una chiesa. Non dubito che uno stile gestionale collaborativo in luogo di uno competitivo (vedi questo post) possa far conseguire migliori risultati aziendali e poi, forse, più crescita e più occupazione . Tuttavia il nostro scopo non è quello, di per sé meschino, di gestire un’azienda aumentandone fatturato, margini, profitti. La nostra ambizione è quella di trasformare la società attraverso la trasformazione dei mezzi e dei modi della produzione economica. In questo senso è utile chiedersi perché l’attuale società è informata a criteri di avidità. La risposta risiede nello psicologismo. Non è difficile cogliere la pochezza, la vacuità dei detentori del potere. In definitiva essi si annoiano. È gente con carenze affettive, sessuali (non scopa o scopa male). Cercano di colmare il loro vuoto interiore con l’accumulo di beni materiali, accumulo di denaro addirittura, di incarichi, cariche, prebende. Si sentono gratificati nel sentirsi chiamare direttori, direttori generali, amministratori delegati, presidenti, ministri. Coltivano la pretesa di incutere timore nel prossimo, la pretesa vastamente ridicola di suscitare invidia (pretesa tuttavia non infondata poiché qualche pirla che li invidia c’è realmente). Tentano vanamente di placare l’angoscia esistenziale inseguendo l’avidità, elevandola a virtù salvifica e ad esempio e modello sociale. Le conseguenze materiali di tali tare psicologiche sul sistema economico si concretizzano nei totem della crescita e della occupazione. Per essere all’altezza di un progetto rivoluzionario la prassi strategica deve essere coerente con gli obiettivi che si prefigge. Il mezzo deve prefigurare il fine. Non ci proponiamo di abbattere il potere per prenderlo, ma per abolirlo tout court. Ferma restando la validità del metodo soreliano, possiamo sfidare e integrare il pensiero di Sorel circa lo sbocco che prefiguriamo per la società futura scaturente dalla rivoluzione proletaria, che dovrà occuparsi dell’abbattimento del totem della crescita e del mito dell’occupazione e connotarsi delle prerogative della decrescita e della liberazione dal lavoro.”
Seguirono applausi scroscianti. DALLA LUCIDITA’ DI POCOCURANTE