LETTI PER VOI (recensioni a perdere) 13

libro1In questo week end fine agostano ho letto La fabbrica del panico (S. Valenti, Feltrinelli, 2013)

Sorta di autofiction (come si usa dire oggi) che narra di due sofferenze, di padre e di figlio (il narratore). Il primo è stato operaio alla Breda fucine negli anni ’70, ha attraversato l’inferno del lavoro agli altoforni, si è ammalato ed è morto della malattia chiamata ‘amianto’. Il figlio ‘vive’ da precario nell’inospitale, oggi come allora, Milano dei giorni nostri, vittima di crisi di panico. In realtà, la vera protagonista del romanzo sembra essere proprio la realtà, con il suo corollario di deludenti e fallimentari lotte sindacali e ricorsi alla ‘giustizia’.

La prosa è convincente, asciutta, incisiva; porta dritto al cuore dello strazio, tanto che se non sei accorto rischi di immedesimarti. Anche se, come afferma qualcuno, ‘il realismo è l’impossibile’. Nel senso che leggendo di queste esperienze così dolorose (stessa sensazione che provai leggendo Se questo è un uomo) viene da chiedersi: possibile? E’ accaduto davvero? E come avrei reagito immerso in quella realtà?

In realtà, la realtà non è mai come la si descrive: è meglio o addirittura è peggio, ma è impossibile descrivere esattamente la realtà.  Fermo restando questo assunto, considerando tutte le tare del realismo, calandosi nei panni dei protagonisti ci si chiede perché non preferire la disoccupazione all’inferno di quella fabbrica, perché non ribellarsi al kapo andando incontro a morte certa ma dignitosa piuttosto che continuare a ‘servire’ nel campo.

Certo, “la quinta elementare non è uno strumento adeguato per comprendere il mondo” e oltretutto morire deve essere un’impresa atroce (“le mani contratte, il ghigno di prostrazione – traspare l’enorme fatica di morire”). Generalmente ci figuriamo la morte come una liberazione, un sollievo, ma è solo una supposizione. In realtà nessuno è mai tornato indietro per descriverci il processo della morte. Del resto finché nessuno narra dei ‘campi di lavoro’ e della ‘vita’ in fabbrica, siamo autorizzati a cullarci nell’illusione che la realtà sia benigna.

In realtà, la realtà, per come è fatta, merita il rifiuto o, per i più sofisticati, la presa per i fondelli (vedi alla voce ironia). L’arte, la pittura nel caso del padre nel romanzo, alla fine si rivela, questo sì, strumento adeguato per comprendere il mondo, per distinguere il reale dall’irreale, e decidere da che parte stare.

Nel suo primo romanzo Pynchon dice di un  suo personaggio (femminile, di nome Mafia) che è abbastanza intelligente per crearsi un mondo tutto suo ma troppo stupida per volerci vivere dentro. Forse per sopravvivere alla realtà si tratta fondamentalmente di non essere troppo stupidi.

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