In questo nevoso week end dicembrino ho letto (non è vero, l’ho letto come la solito in orario di ufficio) il racconto di F. Pessoa dal titolo che è un ossimoro: Il banchiere anarchico, per la serie I libri della domenica edito dal Sole 24 ore.
Diciamo subito che di cose spudoratamente reazionarie ne ho lette tante (es. L’unico e la sua proprietà di Stirner), ma questa si difende bene.
Trattasi di dialogoi fra un banchiere (sedicente) anarchico e una spalla (io narrante). In buona sostanza il protagonista racconta il suo cammino da quando era un ragazzo di estrazione proletaria, operaio, militante in un’organizzazione di giovani anarchici fino a quando ha preso coscienza che l’unico sbocco fattibile per sé per tener fede ai propri ideali e realizzare l’anarchia era divenire un monopolista della finanza.
Argomenta il suo percorso spiegando che l’azione anarchica si propone di abrogare le finzioni sociali che causano quelle disuguaglianze non determinate dalla natura (censo, denaro, religione, ecc.). In concreto: ammette che chi nasce più forte, più intelligente, più tenace merita di stare meglio di altri meno ‘dotati’ dalla natura. Già qui non concordo: secondo me la natura è ingiusta; distribuisce ingiustamente i suoi doni (muscoli, q.i., carattere, forza di volontà). La natura va corretta, non assecondata (es. costruzioni antisismiche, riscaldamento contro il gelo). Le convenzioni sociali non sono negative in sé, dipende se assecondano le ingiustizie ‘naturali’ o se le contrastano. Non si può ammettere che un essere umano sia superiore a un altro ‘per natura’. Estremizzando la logica di Pessoa, chi dispone di forti muscoli avrebbe diritto di sopraffare il meno muscoloso, il più intelligente di fregare il più fesso, e così via. Una società libera non dovrebbe consentirlo.
Quindi prosegue spiegando che per liberare (almeno) se stesso dalla schiavitù del denaro è stato costretto a diventare banchiere. Come se fossero necessari i miliardi per essere autosufficienti; in realtà non serve fare il banchiere, basta fare il bancario (con l’accortezza di svolgere bene il proprio lavoro che è principalmente quello di dissimulare il proprio fancazzismo, rubando coerentemente lo stipendio senza farsi accorgere dal management bancario, impresa non difficile in considerazione del livello medio di intelligenza di quest’ultimo).
Altro alibi, a mio avviso, la presunta inevitabile ‘tirannia’ che caratterizzerebbe ogni cellula rivoluzionaria benché animata dalle migliori intenzioni. E’ comprensibile che un’organizzazione in guerra, che deve combattere e vincere il nemico, possa ‘sospendere’ la democrazia al proprio interno (mi viene in mente il M5S).
Condivido invece la vocazione a ‘prepare’ culturalmente la società al cambiamento necessario (mi ricorda l’affermazione di C. Battisti in un’intervista allorquando riconosceva che era sbagliato prendere le armi prima di avere provveduto a diffondere un’adeguata coscienza di classe).
In definitiva, immaginavo dall’inizio dove andasse a parare il racconto, ma alla fine mi sarei aspettato un colpo di scena, il controcanto dell’interlocutore, invece nulla, sembra di capire che il discorso del banchiere sia convincente.
Allora sorge una riflessione sulle motivazioni che portano l’organo di confindustria ad offrire simili letture ai suoi associati, che immagino troppo impegnati a lavorare durante la settimana per ritagliarsi spazi e tempi per la lettura. Invece la domenica un libretto di 60 pagine può risultare alla loro portata. Trattasi di sovrastruttura, di conforto e alibi culturale per supportare il necessario egoismo per fare i padroni. E quale puntello migliore del finto anarchismo, l’anarchismo individualista, di destra, alla Clint Eastwood (sostenitore di Romney e della lobby delle armi), il finto ribellismo e vero menefreghismo alla Cruciani, il dj di radio24 (“Forza Fornero!”) per ammantare di un’aura simil intellettuale la propria missione e vocazione di perpetuare il secolare sistema di sfruttamento e oppressione che è strumento e fine del potere.
Kraus Davi