In questo week end carnascialesco ho letto Piccoli gulag (C. Bellosi, DeriveApprodi, 2004)
Si tratta di un’appassionata esposizione di ricordi e aneddoti relativi all’esperienza carceraria dell’autore e alla successiva esperienza di educatore in comunità di recupero. Perlopiù storie di disperati, che spesso finiscono malissimo. Storie dure, di sofferenza per l’umanità dolente che si incontra in quei luoghi, nell’universo concentrazionario.
La prosa è coinvolgente (la stessa impressione che ebbi leggendo un’altra opera di un non scrittore: Valentino, Nicola). Anche più coinvolgente di certe opere scritte da scrittori, probabilmente perché qui si narra di vicende vissute personalmente e intensamente. Inevitabilmente intensamente, direi chiedendo venia per il doppio avverbio, considerando che sono scritte da chi ha trascorso lunghi anni in galera, anche in reparti speciali.
Anche qui le pagine iniziali riflettono e trasmettono al lettore un sentimento di mestizia. Scoramento per la sconfitta. Tristezza per quegli anni persi, per quel prezzo altissimo pagato come tributo a una causa giusta e doverosa (a proposito di “immedesimazione lontana”). Per aver cercato di attuare le proprie idee, e per essersi fatti beccare mentre le si attuava.
Fa male pensare alla differenza di tempra fra quella generazione e la nostra. Parlo per me, ma anche per tanti altri che conosco; siamo troppo rammolliti anche solo per pensare di mettere in conto un prezzo così alto da pagare. In ciò credo si sostanzi la vittoria del capitale (che dopo aver vinto la lotta di classe ora si propone di stravincerla), nell’aver geneticamente modificato una generazione, ripiegandola su posizioni individualiste.
Tuttavia, volendo scorgere un’utilità in questa deriva culturale, rilevo un’affinità fra la strategia di salvezza esercitata all’interno del carcere, delle comunità terapeutiche e quella necessaria nella società c.d. libera: “solo i ribelli ce la possono fare”. La salvezza dipende dalla preservazione e coltivazione della propria soggettività. Anche noi (per noi intendo quelli fuori, da certe storiacce) in fondo cerchiamo di mirare alla salvaguardia dell’ecceità. Anche quando si traduce nella ben poco eroica aspirazione del speriamo che me la cavo.
Nel selvatico istinto di immaginare come primaria ambizione la conquista della propria splendida (talvolta), irripetibile (sempre) soggettività. Nel cercare di realizzare il socialismo per se stessi, per usare un’espressione di un altro non scrittore del genere (Franceschini, Alberto, non quello del Pd) che richiama terribilmente il godimento di se stessi (Stirner, Max) che fa sentire in colpa tanto più se lo si riesce a realizzare, senza nemmeno aver avuto alle spalle un passato di droga e carcere.
Insomma, un libro sconsigliabile. Soprattutto al lettore che ha la salute, l’amore, i soldi. E tuttavia sente che gli manca qualcosa… qualcosa gli manca. Ecco cosa gli manca! Gli manca una bella mentalità piccolo borghese che gli consenta di non vedere a un palmo dal naso e di vivere felice in un mondo infelice.