In questo piovoso week end pasquale ho letto I buoni (L. Rastello, chiarelettere, 2014).
Potentissimo romanzo preceduto dall’avvertenza che il contenuto è frutto della fantasia dell’autore e pertanto è corretto considerare queste vicende come immaginarie.
Tuttavia c’è un tuttavia grande come una casa. Tuttavia la mente del lettore non può non andare a Libera, l’associazione di Don Ciotti, soprattutto quando legge la lettera di “scuse” del prete antimafia (don Silvano nel romanzo) a un giovane siciliano chiamato al nord per lavorare (in nero) per l’associazione.
Scuse per averlo menato (“sberle”, “pedate”) quando il lavoratore in nero aveva osato chiedere di esser messo in regola.
Qui c’entra poco la fantasia dell’autore: sia la lettera che la denuncia riportate nel libro sono ispirate da una ‘reale’ lettera di don Ciotti e dalla ‘reale’ denuncia presentata ai carabinieri dal malcapitato, che se la ‘caverà’ con una prognosi di dieci giorni. Non so se anche altre turpitudini descritte nel romanzo siano reali o immaginarie, ma appaiono senz’altro verosimili. Tuttavia ancora, il tema qui affrontato è ben più grande delle miserie di una singola associazione, va ben oltre la cronaca, l’attualità. Qui si tratta di questione filosofica, del male travestito da bene, di lupi travestiti da agnelli.
Il testo è scritto così bene da risultare a tratti ostico, soprattutto nella parte iniziale ambientata in Romania, dove il lessico è volutamente cedevole e zoppicante, rimasticato dai diseredati che abitano le fogne e sniffano colla. Il linguaggio è l’autentico protagonista del romanzo: dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani (cit. Calvino).
La trama narra la storia di Azalea (Aza per gli amici, ma poi anche il suo nome viene violato e diviene “Lea”), rumena che arriva in Italia, in una grande città del nord naturalmente ben riconoscibile, e che grazie ad Andrea, operatore umanitario conosciuto anni prima in Romania, intraprende una bella carriera all’interno dell’associazione In punta di piedi, presieduta dal carismatico e famosissimo don Silvano, prete antimafia che viaggia sotto scorta.
Più Aza sale i gradini verso i vertici dell’organizzazione, e con lei il lettore che la segue con apprensione, più ci avviciniamo all’orrore, all’indicibile. Quell’orrore che ci attanaglia quando solleviamo un masso e vi scorgiamo sotto un verminaio. Grida vendetta lo scenario che si disvela: morti bianche in casa e fondi neri all’estero. Accuse di “sindacalismo” per chi rivendica i propri diritti, per chi non vorrebbe lavorare gratis oltre le 40 (50) ore del contratto. Grottesche gerarchie disegnate col grassetto, col cartongesso. Corruzione di minorenni (insomma, pedofilia).
Come se non bastasse, tutto questo bel contesto è avvolto da un’ipocrisia lessicale da voltastomaco. I non allineati non vengono licenziati, ma “accompagnati”. Il “cammino di condivisione” si infrange sul “ci sono cose che voi non sapete” per giustificare l’ingiustificabile, e allora: condivisione di che? E poi “la frusta dell’oltre” per spiegare l’incomprensibile, il “pettegolezzo” per liquidare il senso critico, la “consapevolizzazione” per cooptare gli inconsapevoli… fino all’involontario umorismo macabro quando per commemorare i caduti della Thyssen si afferma che “lavoriamo per essere liberi”, forse retaggio di massime distrattamente udite durante le periodiche gite nei dintorni di Cracovia…
Parliamoci chiaro, ovunque si organizza un centro di potere possiamo rilevare un duplice livello di codice: quello palese e quello occulto. Questo avviene nelle aziende, stati, chiese, partiti, sindacati. Tuttavia qui lo stridore è più forte perché da chi si batte contro la mafia, contro l’omertà, per una maggiore consapevolezza dei cittadini riguardo i propri diritti che non vanno scambiati per favori, ci si aspetterebbe un minimo di coerenza fra il parlato e il praticato. Invece qui pare che “nel sociale” tutto è possibile, scatole cinesi, contributi non pagati, bilanci falsificati perché il fine giustifica i mezzi, hai l’alibi, l’aura antimafia, e chi non è con te è contro di te. Hai elevato la “legalità” a totem e ne custodisci, tu solo, l’essenza. Tutto secondo la logica dell’emergenza, che una volta era la droga e oggi è la mafia. In nome della lotta alla droga si giustificava la ‘filosofia’ di San Patrignano che, stando a quanto trapelava da quella comunità, induceva gli osservatori esterni laici rispetto alla logica emergenziale a ritenere più dignitoso bucarsi piuttosto che strisciare ai piedi del santone.
Nel finale c’è un istruttivo discorso di Andrea che ricorda il monologo del personaggio di Andreotti ne Il Divo di Sorrentino riguardante la necessità, l’inevitabilità della convivenza col male, fingendo di combatterlo:“abbiamo bisogno di accettare un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia”. Fingere di combattere, qualcuno lo farà al posto nostro, colui che è la forma del mondo com’è.
Il male necessario: la solita scusa del potere.
In realtà di inevitabile c’è il dies irae, che arriva per tutti, anche per chi proprio se lo merita. Inevitabile e giusto, per mano dell’angelo vendicatore venuto dall’est, con una trovata geniale che non svelo per non guastare il finale del libro.
Si fa ancora troppa fatica ad assimilare il concetto di Faber, pure citato da Don Silvano per presentare la rock star Blake in arrivo in città: bisogna essere proprio coglioni per non capire che non ci sono poteri buoni.
VM Pococurante