PENSIERI DI FINE ESTATE SUL COMUNISMO

Cari amici, compagni

Quest’estate mi sono concesso una vacanza in Danimarca e Norvegia. Troppo pochi i giorni per le distanze percorse e i tempi di fruizione. In ogni caso luoghi interessanti e specie in Norvegia una natura bellissima e quasi intatta.

Tra le tante riflessioni che mi sono passate per la testa oltre ai confronti più immediati con il nostro Paese , mi sono domandato: ma che cosa può interessare il comunismo a quella gente, anzi che cosa può essere il comunismo per quei popoli. Che vivono benissimo, con un reddito medio dai 35/40 mila della Danimarca ai 50/55 mila della Norvegia. Con servizi sociali, oltre che servizi al turista, ottimi e diffusi. Con tassi di disoccupazione molto bassi e una distribuzione del reddito con livelli quasi egualitari. Con un indice di felicità (in Danimarca) che è il più alto nel mondo.

Cosa può loro raccontare il comunismo. Tenendo conto della visione di Marx che pensava che il suo comunismo dovesse riguardare i luoghi del più alto sviluppo delle forze produttive.

 Come può essere percepita l’idea di comunismo in quei paesi? Così ben organizzati, con un senso di civismo e della democrazia invidiabili? Sono domande a cui non so dare risposta, eppure penso che possano essere delle domande non banali. Oggi la crisi del comunismo è soprattutto crisi di un modello, di un riferimento anche concreto. Non c’è più l’Urss, non c’è più un riferimento concreto, criticabile o meno. E chi –giustamente dico io – lo criticava non ha saputo offrirne una alternativa credibile. Ma la necessità di offrire un modello è obbligatoria se si vuole essere credibili. A partire da una analisi corretta delle trasformazioni capitalistiche in corso da molti anni e dalle loro tendenze. Mi domando ancora di quale comunismo dovremmo parlare in corrispondenza dell’attuale livello di sviluppo delle forze produttive e della loro contraddizione con i rapporti sociali che li contraddistinguono?

Siamo proprio sicuri che invece non si possa perseguire una via socialdemocratica (o socialista) alta, prendendo come riferimento quei modelli di società (Norvegia, Danimarca, Svezia) per implementarli e realizzarli anche nel nostro paese ed eventualmente migliorarli?

Che per esempio come in Danimarca si possa e debba realizzare un modello di flexicuritè che sia un compromesso tra esigenze di flessibilità collegate alle nuove forme di produzione e sicurezza sociale e reddito?

Insomma cari compagni è proprio vero che sparito il socialismo reale o il comunismo dell’Unione Sovietica sono destinati a sparire anche le socialdemocrazie e che nessun compromesso tra capitale e lavoro sia ancora possibile?

Perché mai non dovrebbe essermi sufficiente individualmente e collettivamente un lavoro subordinato, se quel lavoro subordinato avviene con garanzie, diritti, opportunità che mi permettano di vivere dignitosamente e in una situazione di benessere e sicurezza economica e sociale?

Perché dovrei assumermi il rischio del comunismo? Di che cosa produrre, di come , di quanto e per chi? E sempre che sia questo il comunismo come lottare (il conflitto è un mezzo) per ottenerlo e quali rapporti sociali inventare per realizzarlo adeguatamente. Senza la scorciatoia dell’assalto al Palazzo di Inverno, oggi diventato meta di turisti.

Alessandro Magni

10 pensieri su “PENSIERI DI FINE ESTATE SUL COMUNISMO”

  1. Ciao Sandro, buon rientro.
    40.000 euri per 9 miliardi di abitanti fa 360.000 miliardi di euri, attorno ai 500.000 miliardi di dollari, una cifra annua troppo alta per la sostenibilità fisica del pianeta. L’attuale livello già di per sè insostenibile del PIL mondiale è attorno ai 60.000 miliardi di dollari, un ordine di grandezza meno, e sappiamo bene come e quanto sia mal distribuito il reddito attuale, fatto da cui nacque l’originaria proposta comunista. Il rischio d’impresa non è più una semplice scelta soggettiva, è un dovere morale legato alla sopravvivenza della specie, e in questo il comunismo reale è stato dichiarato fallito.

    E’ chiaro che il danese felice non si ponga il problema, non ne ha la voglia, e men che meno l’africano che muore di fame, non ne ha la possibilità.
    I dipendenti Alitalia al capolinea del “bere o affogare” evocano la guerra civile. Dopo decenni di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni siamo ai massimi di corruzione della classe dirigente, dall’industriale al politico, questo è il nostro attuale “modello di sviluppo” sociale.

    Non credi che urga una risposta nuova?
    Alberto

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