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LETTI PER VOI (recensioni a perdere) 16

In questadolfo week end preprimaverile ho riletto (per la seconda volta) Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (M. Parente, Mondadori, 2014).

Spiace dirlo, ma questo romanzo mi è piaciuto molto, moltissimo; e ora cercherò di spiegare perché.

 

La trama descrive la parabola di Max Fontana, bambino malcresciuto a massicce dosi di tv e telefilm che alla soglia dei quarant’anni, rendendosi conto del proprio fallimento professionale e umano, si reca a Parigi per suicidarsi. Tuttavia lì accade l’imponderabile (che verrà tratteggiato meglio in seguito per non impressionare subito il lettore) e rinasce a nuova vita: diviene improvvisamente il più grande artista del mondo. Da lì in poi, da novello re Mida, tutto ciò che tocca diventa oro, preziose opere d’arte, discutibili e discusse da pubblico e critica, ma ricercatissime. La vita gli sorride, grazie alla fama e al denaro finalmente può celebrare pienamente la sua eccentricità e sbruffoneria, frequentare il jet set, avere le donne più belle e famose, una vita al massimo finché non interviene di nuovo l’imponderabile, il ‘caso’ che malignamente prima dà e poi toglie. Il testo è scritto in prima persona, l’io narrante parla nell’iPhone raccontando la parte finale delle propria vita per lasciare ai posteri la testimonianza di come sono andate veramente le cose e quali erano i ‘profondi’ pensieri di questo pazzoide artista. Descrive le proprie opere, finalizzate a far indignare i moralisti che allignano principalmente fra cattolici e comunisti, tipo Heil Mary!, un madonnone pieno di svastichine in poliestere appoggiato al Colosseo da cui penzola impiccato al cordone ombelicale il bambinello Gesù. Oppure ‘Il guardaroba dei morti’ una sala piena di vestiti da vecchi, poiché i vestiti dei vecchi, tolti dai corpi dei vecchi, diventano vestiti da morti. Oppure ‘L’audio dell’urlo di Munch’, una cassa da 200 W con la registrazione audio dell’urlo che spaventa i visitatori. E poi ‘Zebrei’, due zebre imbalsamate in una camera a gas.

 

E qui si introduce il tema scottante del nazismo, dell’Olocausto, insomma inutile girarci intorno, di Hitler. L’unico artista al mondo del quale Max Fontana riconosce la superiorità.
Parente riesce a creare un personaggio odioso, tanto più odioso quanto più gli attribuisce riflessioni che talvolta troviamo condivisibili; Max Fontana è la faccia oscura della nostra luna nera. Una summa del Fontana pensiero può essere rappresentato da queste ‘perle’: “le donne sono tutte troi
e”, “una vita da ufficio è da idioti” (e qui in effetti…), “per parlare con la gente devo drogarmi perché la gente è insopportabile”, “la Cappella Sistina fa cagare”, “Cesare Battisti è un vigliacco perchè in Brasile il governo lo protegge” , “Las Vegas è la massima realizzazione della civiltà umana”, e via di questo passo. L’ammirazione per Hitler non è determinata da motivi politici, Fontana nega di essere nazista, ma dal fatto che, a prescindere dal metodo, è un essere umano, non un mito, un essere umano che prima era uno sfigato qualsiasi e poi ha saputo conquistarsi fama eterna.Dici Hitler e tutti drizzano le orecchie”. Essere famoso, ecco ciò che più conta nella vita. E ciò non vale solo per il nostro protagonista, nossignori, vale per tutti. Eh già, ognuno nel suo campo, nel suo settore, aspira ad essere famoso; per esempio chi lavora in banca (fa proprio quest’esempio) desidera più di ogni altra cosa essere il più famoso della banca (!).
La trama si dipana poi fra omicidi preterintenzionali che l’autore rivendica come volontari, firmandoli e trasformandoli in opere d’arte per fare’ bella figura’.

Dunque, come può una mente umana concepire simili idee? Quali sono gli elementi, le fonti che hanno contribuito a formare una tale squisita mentalità?

Il Nostro cita spesso i suoi riferimenti culturali: telefilm americani, quelli di ultima generazione che, ahimé, conosco solo per sentito dire, mai visti, tipo Dottor House, Dexter, oppure film di cassetta, che invece conosco bene, tipo Rambo, Thelma e Louise, Kill Bill, Karate Kid e infine, Casa Vianello.

In definitiva, Max Fontana non ha proprio nulla di speciale, parliamo del prototipo di spettatore medio uscito da una cura intensiva, trentennale di società dello spettacolo. In effetti cita spesso anche Duchamp, il ready-made, ma non riesce a concepire il superamento dell’arte debordiano. Viene assimilata la lezione impartita dal sistema a tal punto da ritenerla legge fondamentale di natura: ciò che conta non è l’essere, e nemmeno l’avere (infatti dilapida il denaro) ma l’apparire.

Non riesce a concepire che possa esistere una vita propria all’infuori del Truman Show che altri, non lui, ha allestito; e fesso è chi vuole uscirne. Rinuncia a cercare la verità, anche nelle piante (sono più belle quelle finte) e la Venezia ricostruita a Las Vegas è di gran lunga preferibile a quella reale. Così gli è stato insegnato nel corso della sua intera vita dallo schermo e diligentemente, ideologicamente vi aderisce, tacciando di ipocrisia, di moralismo chi contesta questa visione della vita. Un esempio di tale superficialità lo troviamo nella considerazione che, in fondo, Hitler ha ‘solo’ anticipato la fine di milioni di individui, che a quest’ora comunque sarebbero morti, come se importasse solo il quando e non il come, come se fosse indifferente morire nel proprio letto o in una camera a gas. Così interpreta il ready-made duchampiano, l’indifferenza degli oggetti rispetto alla sofferenza umana si trasferisce agli umani, così definitivamente reificati: “noi siamo oggetti”.


Coerentemente, riesce a manifestare affetto e amore solo per Martina, che in un primo momento il lettore intende una bambina adottata sordomuta (e qui Parente mi avrebbe davvero deluso), ma poi con sollievo scopriamo essere uno scimpanzé. Certo, a uno cui piace vincere facile, educato dalla filosofia da spot pubblicitario, conviene scegliersi come oggetto d’amore un
animale. Anche qui Max Fontana si rivela un comunissimo umano che, non riuscendo ad instaurare autentici rapporti umani, anzi, negandone l’esistenza, riversa tutta la propria capacità d’amore su un ‘oggetto’, benché animato, che ricambierà l’affetto senza giudicare, senza chiedersi se chi ha di fronte sia per caso uno stronzo, senza chiedergli di migliorarsi.

Ne vediamo a milioni, attorno a noi, di gente così, di ‘amanti degli animali’. Animali elevati a divi del web, paparazzati e postati su Fb, gattini, cagnolini; e ciò dovrebbe indurci a ritenere i loro padroni delle persone sensibili..

Non basta cogliere il punto fondamentale dell’origine del mondo: ognuno di noi si è trovato ‘al posto giusto nel momento giusto’, quando eravamo spermatozoo, proprio come Max Fontana davanti al quadro di Courbet. Così è nato chiunque.

E chiunque, se solo ne prendesse coscienza, dispone dell’aura benjaminiana, qualsiasi cosa faccia, pensi, crei, è un’opera d’arte, unica e irripetibile. L’errore di Max Fontana consiste nel credere, ed è la fede del nostro tempo, la religione del mondo occidentale, di dover chiedere permesso a qualcuno per ritenersi il più grande artista del mondo, il permesso al pubblico, agli spettatori, al mercato per passare al di là dello schermo, quando chiunque, se capisse che non è neppure necessario essere artisti per permettersi il lusso di essere se stessi, potrebbe sperimentare l’onnipotenza di fare a meno di schermo, spettatori e spettacolo. Tutti uguali, tutti grandi artisti, un comunismo dell’arte che comporterebbe finalmente il superamento dell’arte stessa; quella ‘triste vita comunista’ che comprensibilmente un Max Fontana aborre.

 

 

TALVOLTA MI ARRISCHIO ANCH’IO ….dopo aver letto F.Abbate

intanto-anche-dicembre-e-passatoDopo il post pre-recensione di Intanto anche dicembre è passato – il nuovo libro di Fulvio Abbate  (Baldini & Castoldi, 2013) ecco il seguito dopo la lettura:

Avete mai vinto una scommessa? Io sì, più di una; benché abbia una naturale avversione al rischio, talvolta mi arrischio. Come con questo romanzo di Abbate, il primo che abbia letto.

Abbate lo conoscevo solo tramite le performances di Teledurruti o i suoi pezzi su Il Fatto.

Il rischio risiedeva nella sindrome da ‘sabato del villaggio’, nell’eccessiva aspettativa rispetto all’effettivo piacere che avrei provato nell’atto concreto della lettura.

Ebbene, sebbene tratti di ricordi d’infanzia di un’epoca addirittura precedente la mia nascita (le auto, le riviste, le collezioni di figurine) l’efficace affabulazione trasporta il lettore con naturalezza nel tempo, consentendo l’identificazione con l’io narrante (Abbate bambino).
E’ un testo capace di far sorridere (quando Hitler, l’imbianchino ingaggiato dal nonno viene cazziato da quest’ultimo per la sua negligenza nei lavori di tinteggiatura) e di far ridere (la scena in cui lo stesso Hitler, all’uscita dal cinema, molla uno sganassone al povero piccolo Abbate dopo aver appreso della sua defaillance a scuola -non riusciva disegnare un cubo – per mostrare adeguata severità a Crostaccia, il maestro incontrato lì per caso).

Ma anche di commuovere, quando l’io narrante ormai adulto rievoca la scomparsa degli anziani genitori; e lo fa a modo suo, ‘da Abbate’, ricordandoci “quali meravigliose risorse possediamo noi esseri del creato, perfino nei peggiori momenti, quando sembra che non ci sia nulla cui sorridere”.

Qui si riesce a trattare con garbo e levità il tema della morte, si evoca il memento mori con l’aneddoto dell’addetto morto al’improvviso, di infarto, alla guida del carro funebre.

E ancora prima, di ritorno da Parigi, dove con tutti parenti si era recato in treno (il razzo progettato da Majorana sul terrazzino non era pronto) con lo stridente accostamento fra divi (Belmondo, Camus, Nimier) e le immagini di auto accartocciate, salme ricomposte alla morgue.

Trattasi in definitiva di autofiction, mescolanza di fantasia e realtà, con una ‘trama’ assai improbabile. Hitler, ospite a Palermo, si innamora di una cassiera di rosticceria e, noncurante della pupilla di fuoco incandescente che non smette di puntarlo (un parente che non vede di buon occhio, è il caso di dirlo, la relazione) finisce, probabilmente, incaprettato.
Majorana invece, altro desaparecido redivivo nel romanzo, dopo aver dato lezioni di matematica al bambino Abbate e progettato il suddetto razzo (entrambe imprese fallimentari) scompare definitivamente, travestito da suora, prendendo un treno con destinazione ignota, non prima di aver chiesto al nostro bambino cosa intendesse fare da grande, il quale risponde, pascolianamente, che coltiverà per sempre il fanciullino che è in sé.

LETTI (non ancora) PER VOI – Recensioni incompiute

altan uomo di potere e ordini In questo week end nebbioso sto leggendo Intanto anche dicembre è passato (F. Abbate, Baldini & Castoldi, 2013) Premetto che trattasi di recensione anomala datosi che il libro non l’ho finito, anzi l’ho appena iniziato. Tuttavia avverto l’urgenza di scriverne. Perché?

Ieri mattina ricevo la convocazione per il pomeriggio stesso (venerdì!) alla riunione con capi, capetti e grande capo in sede a Milano. Grande incazzatura. Grande scoramento. Tentazione di addurre una scusa, che so motivi familiari, per non andare. Ma forse è proprio quello che si aspettano per poi restare in credito, quelli sono bastardi. Insomma, devo andarci. Poi dice che uno non legge più, non scrive più… per forza, qui ti rubano il tempo! E non solo quello.

Le prime volte queste convocazioni mi procuravano ansia, angoscia, timore reverenziale. Ora la sensazione è solo: pena. Grandissima pena. Queste riunioni sono penose e prevedibili come i pranzi natalizi coi parenti, come il festival di Sanremo. Adesso tutto, tutto il contesto mi sembra penoso e prevedibile. Ho bisogno di qualcosa di forte. Entro (no, non al bar; devo ancora guidare al ritorno) in libreria e chiedo l’ultimo libro di Abbate. Una rapida ricerca a video e “sì, ce l’abbiamo” – “davvero, ce l’avete? Lo compro!”. Ecco, ora lo stringo in mano l’imprevedibile.

Mentre mi dirigo in sede ne leggo l’inizio. Parla dell’ingaggio di un ‘particolare’ imbianchino per pittare casa. Hitler, per non infondati motivi, è assurto a brand del Male che ciascuno giustamente sfrutta ai suoi fini, che siano di tinteggiatura e/o letterari (fra l’altro dev’essere di prossima uscita anche il libro di un parente che sfrutta il medesimo brand, boh quello poi vedremo). Comunque, c’è questa scena dove il nonno cazzia Hitler, glielo fa a fette notando lo stato di non avanzamento dei lavori. Mi ha strappato un sorriso. Ed è con quel sorriso che entro alla riunione.

Tutti gentilissimi, i bastardi. Grandi strette di mano, pacche sulle spalle. Bastardi senza gloria. Si credono furbissimi. Gentilezza e affabilità come mimetismo, come depistaggio, per dissimulare i reali rapporti di forza. Come per tenerli a pelo d’acqua, i rapporti di forza. Ma in fondo questi sono poveri cristi. Guadagneranno solo il doppio di me (i capetti), forse il triplo (il grande capo).

Sono solo replicanti, volenterosi carnefici al servizio dei vertici, quelli che si pigliano 200/300 volte il mio stipendio. Anche questi penosi incontri sono repliche, scimmiottamenti delle riunioni che subiscono loro, dai ‘vertici’. I capetti iniziano a sciorinare la solita, patetica lezioncina sulla redditività, in attesa dell’intervento del grande capo. Il quale già un paio di volte si è avvicinato con nonchalace alla finestra aperta, dandole le spalle. Suppongo per rilasciare silenziose flatulenze.
Una finestra aperta. D’inverno. A Milano. Link chiama link. La mente ragiona come un motore di ricerca. E’ sempre stato così, ora ne abbiamo piena consapevolezza.

Dunque mi sovviene Calabresi, e poi Sofri (ma il figlio) che ha scritto un terrificante post sul suo blog. Terrificante perché temo tanto che abbia ragione.

La fine dei libri, argomentata con solidi indizi, anzi prove.

Parafrasando Pinelli (se è vero è la fine dell’anarchia) direi: se è vero è la fine di tutto.

Dice che è inutile scrivere libri, poiché nessuno ha più tempo di leggerli. Tutti ‘navigano’ in rete, sia in casa che fuori coi nuovi aggeggi elettronici. E ciò non solo porta via tempo (i giorni durano sempre 24 ore, non è data espansione di memoria) ma disabitua alla concentrazione, alla lettura di lunghi testi. Verissimo. Me ne rendo conto io stesso sulla mia pelle, benché non sia certo un patito del web. Ultimamente fatico a finire Il re pallido di Wallace. Pochi anni fa avevo letto Infinte jest che è il doppio.

Onestamente penso di essere uno dei pochi ad averlo davvero letto tutto fino in fondo, fino all’ultima microscopica nota.

Nessuno, da me interpellato, è in grado di dire cosa stava scritto in cirillico sulla maglietta di Pemulis (la vodka è nemica della produzione). Ironico. L’alcol è amicissimo della produzione, almeno quella letteraria; chiedete a Hemingway che suggeriva di scrivere ubriachi e correggere da sobri. Qui mi pare vi sia ben poco da correggere.

Divago.

Eppure Il re pallido è fenomenale, spiega tutto. Spiega come siamo arrivati ad essere carne da consumismo, dall’avvento di Reagan in poi. Tutto pianificato, come l’eccesso di informazione. Una volta non era così, avevi ‘il tempo’ di leggere, di ponderare. Oggi hai l’assillo di cogliere l’ultima esternazione di Renzi, di Letta, altrimenti se perdi una puntata non ti raccapezzi più. Il blogger dice che un post ha più lettori di un libro, e resterà, a differenza del cartaceo che finirà intonso al macero. Certo è più sintetico ma, dice Sofri, talvolta un pensiero che sta in poche pagine viene stiracchiato in cento per ricavarne un romanzo. Talvolta è così, d’accordo, ma come la mettiamo con Wallace, con Pynchon, con la felicità del narrare? Suvvia, sarà stata una provocazione.

Ecco a che penso mentre qui risuona incessante il mantra della redditività, meme ripetuto decine di volte. Redditività, redditività. Comincio a pensare che vi sia dell’altro, di torbido, di inconfessabile. Mandano avanti la redditività come cortina fumogena, non è possibile che ostentino così apertamente, oscenamente il loro vero desiderio recondito.La redditività come diversivo, depistaggio.

I capetti hanno concluso la loro prolusione, stanno per dare la parola al grande capo. Sembrano indispettiti dal sorrisetto che devo aver mantenuto sulle labbra per tutto il tempo. Sorrisetto in realtà determinato dalla consapevolezza di avere il libro di Abbate nella borsa. Non un post, non un sms, non un tweet. Un libro. Questi poveretti non sapranno mai perché sorrido, perché riesco a sopportare tutto questo, non sospettano evasioni patafisiche. Vabbè comunque in conclusione: questa (non) recensione resta incompiuta (come Il re pallido, del resto) perché il libro non l’ho finito.

(continua, forse…)

Kraus Davi alias Massimo Bagnato alias Pococurante alias ecc. ecc. e via via disperdendo la mia identità…

LETTI PER VOI (recensioni a perdere) 15

serra libroIn questo primo week end dicembrino ho letto Gli sdraiati (M. Serra, Feltrinelli, 2013)

Best seller che contende a Volo la cima delle classifiche di vendita (e già questo offrirebbe spunti di riflessione).

Lo stile dell’autore è quello che conosciamo e non delude le attese, tagliente, ironico.

Con un di più: è accorato.

Si tratta di monologo/lettera/confessione di un padre al figlio adolescente. Una disamina del rapporto intergenerazionale all’alba del terzo millennio. Il tema del libro è infatti la straordinarietà di questa generazione, degli adolescenti di oggi, affatto diversi da quelli di ieri e forse di sempre.

Il padre narrante, percependo distintamente la distanza e l’incomunicabilità con il figlio e i suoi coetanei, nutre il sospetto che non si tratti della classica difficoltà a capirsi e comunicare fra vecchi e giovani che esiste da che mondo è mondo, ma che sia in corso una separazione definitiva fra il passato e il futuro degli umani.

Egli si sente come l’ultimo anello di una catena spezzata, tale è la cesura fra il ‘suo’ mondo, fatto di attenzione per l’ambiente circostante, la bellezza della natura, del mare, della montagna; cura della casa, il suo ordine, la sua pulizia e la sciatteria e trascuratezza che per contro il figlio vi riserva.
A questi giovani pare interessare poco ciò che esula da quei due metri scarsi che occupano nell’universo; per contro sono concentratissimi sulla propria persona, sull’abbigliamento (molto istruttivo l’episodio del negozio di felpe ‘speciali’) e soprattutto (qui penso sia il punto nodale, il discrimine fra l’oggi e il passato) sono sempre connessi.

Credo che questa generazione, a differenza delle precedenti, non abbia mai sperimentato davvero la noia, le ore vuote. La noia è una grande levatrice, ma non ne scoprirai mai le virtù maieutiche se sei sempre connesso, quindi, in definitiva, sempre distratto.

Talché sembrerebbe superflua anche una ‘Grande Guerra Finale’ per dominare una simile gioventù di debosciati, bastando una piattaforma digitale ben congegnata.

E’ proprio vero che l‘amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito. Non richiede capacitàche non siano istintive. Il difficile viene dopo.

Dal mio particolare punto vista, di futuro padre di adolescenti (fra una decina d’anni) leggo con sgomento che il figlio di un borghese illuminato, raffinato intellettuale, indubbiamente sensibile e intelligente, che non ringrazierò mai abbastanza per Cuore (quella boccata d’ossigeno settimanale indispensabile per riuscire a respirare nei mefitici anni ’80/90) insomma proprio il figlio di Michele Serra non sembra distinguibile, quanto a maleducazione in senso lato, dal figlio di un cafone, ignorante, evasore, arricchito. Inesorabilmente omologato dal processo di narcisizzazione di massa.

Ciò dà la misura del ‘peso’, nell’educazione di una persona, che ha assunto la società, ‘questa’ società dei consumi e del parossismo mediatico, rispetto alla famiglia (non parliamo della scuola, poveri insegnanti…).

E’ come combattere a mani nude contro un moloch.

Poi Serra ci mette del suo, in una sorta di autoanalisi circa le sue difficoltà ad interpretare l’auctoritas (e qui il mio sgomento cresce perché potrei sottoscrivere riga per riga), a stabilire regole e a farle rispettare, con tono convincente e convinto… mamma mia!
Se è la società che riesce più efficacemente ad educare, se la famiglia conta così poco, resterebbe solo da sperare che fra dieci anni sarà cambiato il mondo, forse una guerra, una carestia, il collasso finanziario globale, insomma qualcosa che spazzi via questa società del “benessere” che si incarica di così ‘ben allevare’ i giovani. Oppure niente di così catastrofico, basterebbe uno shock petrolifero tipo quello del ’73, le domeniche a piedi, l’austerity… e poi il ’77… sono stato adolescente nel ’77, in quel clima culturale, non so se mi spiego, e sono venuto su benissimo, modestia a parte.

Nel finale del libro, allorché il padre riesce a convincere il figlio a condividere la mitizzata salita sul Colle della Nasca, si cerca di dare un messaggio di speranza: questi giovani non sono arretrati, ma sono già oltre. Incarnano un’inedita forma di snobismo, di superiorità; sono poco curanti. Con le loro scarpe, col loro fuso orario, col loro passo, insomma ‘a modo loro’ raggiungeranno comunque quelle mete che in passato sono state conquistate tramite vetusti protocolli fossilizzati nel tradizionalismo. Mah, sperèm…

LETTI PER VOI (recensioni a perdere) 14

mi-cercarono-l-animaIn questo week end novembrino ho letto: Mi cercarono l’anima (D. Facchini, Altreconomia, 2013)

Il racconto dei sette giorni di Stefano Cucchi nelle mani dello Stato attraverso le carte e le testimonianze del processo chiuso in primo grado con la condanna del personale medico del padiglione “Sandro Pertini”, l’ospedale-carcere dove Cucchi ha perso la vita, e l’assoluzione degli altri imputati (tre agenti di polizia penitenziaria) accusati di percosse.
Lo Stato dunque afferma che il pestaggio indubbiamente c’è stato, non si sa chi l’ha commesso, e nega il nesso di causalità fra questo e la morte. Uno schiaffo, prima che alla memoria di Stefano e alla famiglia Cucchi, al buon senso: è intuibile per chiunque che il tragico esito sia stato determinato da concause.

Il racconto è scritto in maniera avvincente proprio perché basato su dati oggettivi, dettagliato giorno per giorno, ora per ora; porta il lettore ‘dentro’ la traiettoria di questa triste vicenda, fino all’insopportabile epilogo, il brano più duro da leggere, dove sembra di assistere in prima persona all’agonia di un essere umano vittima della superficialità e sciatteria propriamente riservate agli ultimi. Infatti una disavventura simile non potrebbe certo mai capitare a un Ligresti, tanto per non fare nomi (che curiosamente incrocia questa vicenda come ricordato a pag. 133) poiché, per come è strutturata questa società, anche l’ambito giudiziario e sanitario sono pesantemente condizionati da logiche classiste. E’ di ciò che realmente ci parla questo libro: di classi, di ‘rapporti di forza’. Spiace introdurre elementi aridi, materialistici e certamente noiosi in una recensione letteraria, ma lo ritengo doveroso per cercare di arrivare alla radice del problema, per dare un senso alla tragedia e capire perché la realtà circostante si muove in certe direzioni. Del resto anche in questo libro troviamo parti noiose ma utili, con lessico tecnicista, come quando si scende nel dettaglio delle perizie mediche. Si entra letteralmente nelle ossa, nelle vertebre, per cercare di capire cosa effettivamente è successo. E’ faticoso, è difficile, di non immediata comprensione, ma decisamente necessario. Dunque, i rapporti di forza. Essi sono indispensabili per l’equilibrio di questa società. Sono precondizione sociale prima che economica per conseguire lo scopo ultimo verso cui è orientato il mondo: la massimizzazione del saggio di profitto, dato dal rapporto che vede a numeratore il plusvalore e a denominatore la somma del capitale costante (gli investimenti in mezzi di produzione) e capitale variabile (i salari). Tuttavia il sistema non troverebbe equilibrio senza l’elemento che determina l’entità del capitale variabile, ovvero la componente monetaria destinata a ricostituire la forza-lavoro, quelle risorse in definitiva necessarie ai lavoratori per mantenersi, per mangiare, vestirsi e di più (lo svago, ecc). Chi decide quanto e a chi spetta? Ovviamente chi è più forte, chi è uscito vincitore da uno scontro che ha avuto luogo ‘prima’ dell’instaurarsi dei meccanismi di estorsione del plusvalore, che a questo punto servono solo a perpetuare gli stabiliti rapporti di forza. (Attenzione che qui si sta parlando dei meccanismi, tuttora solo parzialmente attuali, dell’economia ‘reale’; niente a che vedere con l’economia virtuale/finanziaria del terzo millennio che risponde a dinamiche più vicine a logiche da videopoker). Nei rapporti nord sud del mondo per esempio la situazione attuale è stata determinata dalle politiche imperialiste e colonialiste del passato e perpetuata ora dai ricatti economici che variano a piacere il tasso di profitto fra diverse aree produttive, aggirando il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, liberalizzando la circolazione delle merci e negando un’analoga libera circolazione delle persone.

Cosa c’entra tutto questo col caso Cucchi? C’entra perché le istituzioni, al di là delle funzioni democratiche di facciata, sono preposte alla perpetuazione di quei rapporti di dominio che ‘devono’ essere introiettati dai ‘cittadini’ (sulla carta), sudditi (nella realtà) educati all’obbedienza e al rispetto dell’auctoritas, pena il crollo di tutta l’impalcatura del sistema. Lo Stato si dimostra funzionale a questo: attraverso le leggi (sulla droga come sull’immigrazione) perpetua le disuguaglianze, le divisioni in classi. Specula sulla vulgata del “se la sono cercata”. Utilizza il carcere come discarica sociale (con un sovrappiù di sadismo apportato dal primato vantato dal sistema penitenziario italiano). Realizza nei fatti ciò che a parole afferma di volere contrastare. Ma ciò che che dà più fastidio al potere è che esista qualcuno che insiste nel far emergere le contraddizioni, che smascheri e sottolinei l’ipocrisia fondante del sistema.

E se ti ribelli, se sei un blasfemo, se mostri un ‘carattere irascibile’ , con ‘arroganza’, ‘insistenza’, ‘violenza verbale’ nei confronti dei rappresentanti dello Stato in divisa, finisci male. Non hai capito la lezione, non hai capito che a questo mondo è tutta una questione di rapporti di forza, e tu sei debole. Nella sentenza viene rimproverato anche questo ai familiari, di aver cercato di coinvolgere l’opinione pubblica, di alimentare il clamore mediatico intorno alla vicenda, insomma di tentare di alterare i rapporti di forza. E’ intuitivo che se sei sotto i riflettori stai più attento, sei meno incline a quella superficialità e sciatteria normalmente riservata agli ultimi, ai deboli. Del resto la stampa viene definita il quarto potere mentre forse qualcuno vorrebbe fermarsi al terzo. Lo stesso Gherardo Colombo ai tempi dell’inchiesta Mani pulite riconosceva l’enorme importanza dell’appoggio dell’opinione pubblica, ammettendo implicitamente che l’amministrazione della giustizia non è esclusivamente autosufficiente e autoreferenziale, ma può infondersi in un contesto di cambiamento storico.

Da qui la necessità, per chi non accetta l’attuale stato di cose, di tenere alta l’attenzione, attraverso gli scritti, gli eventi, gli sforzi di verità e informazione, su questa vicenda emblematica, come su altre analoghe. Per incidere materialisticamente sui rapporti di forza che solo gli sprovveduti e gli utopisti possono considerare immutabili. Quegli utopisti che vorrebbero limitarci a sognare in un giardino incantato.

VISTI PER VOI (visioni a perdere) 4 – GLI EQUILIBRISTI

 

equilibristiGiusto ieri ho visto Gli equilibristi (I. De Matteo, 2012)

Diciamo subito che forse la cosa meno azzeccata del film è proprio il titolo (almeno al plurale), mentre per il resto niente da eccepire. Magistralmente diretto e interpretato, anche dai giovanissimi attori. L’avrei intitolato piuttosto “la caduta” oppure “il telefonino”, poi vedremo perché. La trama è presto detta: un matrimonio in crisi, la separazione, il dramma prima umano e poi economico.

Premetto che le mie analisi circa questo duplice aspetto del film, umano familiare e socioeconomico, potranno risultare scomode, impopolari, ciniche (?).

Sotto il profilo intimista, la vicenda prende le mosse da una “cazzata”, come la definisce il protagonista maschile Giulio (V. Mastandrea), una scappatella con una collega. Imperdonabile, certo. Soprattutto perché viene scoperta; lascia tracce, messaggini nel telefonino (il minimalismo del lessico sembrerebbe riflettere la piccineria della cosa). Tuttavia ciò viene vissuto come grave tradimento da parte della moglie (una gelida B. Bobulova). Che non perdona. Oltretutto quei messaggini disvelati le procurano comprensibilmente grande sofferenza. Dunque, che fare per uscire da questa sofferenza? Entrare in una ancora più grande, per sé, per il marito ‘spinto’ fuori di casa (ancora innamorato della moglie tanto che rifiuta l’ospitalità dell’amante) e soprattutto per i figli. Ben fatto, applausi per questa Mme Bovary au contraire. Niente più del sentimentalismo uccide l’amore.

Giulio , pur avendo un lavoro da impiegato in comune, scende rapidamente i gradini della scala sociale raggiungendo il rango di clochard, pasto alla caritas e notte in auto. Se prima, da integrato nella classe piccolo borghese dimostrava una qualche sensibilità umana (l’episodio in cui accetta le pizze a domicilio disguidate), ora da pezzente ha perso pure quella (episodio allo sportello dove maltratta l’utente che ha perso la madre). Insieme al denaro sembra necessario perdere proprio tutto, perfino l’interesse nei confronti della figlia (una bravissima Laurenti Sellers) che appare l’unica capace di mantenere l’equilibrio (rendendo onore al titolo), risoluta e alla fine risolutiva.

Dal punto di vista sociale, il messaggio viene ben sintetizzato dalla battuta “il divorzio va bene solo per i ricchi”, e ad una visione superficiale la morale del film sembrerebbe essere: basta non tradire, in senso lato, e non si diventa poveri. Personalmente ravviso la vera protagonista, la vera traditrice, nel film come nella realtà, nella società dei consumi, che prima ti blandisce, ti illude. E poi di depreda, ti bastona.

Solitamente il cinema ha virtù profetiche, anticipa e prefigura ciò che accadrà. Mi piace pensare che la caduta nella povertà di un lavoratore, che pure continua ad essere salariato, sia solo accelerata dalla separazione. Che in un futuro molto prossimo, e le avvisaglie ci sono tutte, chiunque scivolerà nella povertà, io per primo beninteso.

Più la contingenza è negativa e meglio si chiarisce la situazione, meglio si distingue il vero dal falso. I veri bisogni da quelli indotti, i veri amici da quelli falsi (il kapo al mercato ortofrutticolo che prima sfrutta Giulio e poi, quando alza la testa, lo mette a tacere con “non sei nemmeno capace di mantenere la famiglia”). Non sei nemmeno “capace”, come se fosse colpa sua, come se questo sistema fosse davvero fondato sull’homo faber fortunae suae. E chi cade in disgrazia finisce col crederci davvero, che sia solo tutta colpa sua, perché questo modello sociale atomizzato, visceralmente individualistico, così educa e indottrina il corpo sociale, così come ammaestra i ‘vincenti’ a convincersi che sia tutto merito loro…

E’facile immedesimarsi in Giulio, e chiedersi “che farei nei suoi panni?” Personalmente mi rispondo che andrei a rubare, lo troverei più dignitoso. E perfino etico, se derubassi chi ha più di me (e in quella situazione non è difficile trovarlo).

Secondariamente, d’istinto, la preoccupazione è “che non capiti a me!”. Sbagliato. L’errore sta proprio nel voler restare aggrappati con le unghie a questo modello sociale. Deve invece capitare a tutti, e tutti insieme. Solo così sarà possibile uscire dalla mentalità individualista (e pecorona del così fan tutti, dall’andare dall’avvocato per la separazione all’acquisto di merci superflue) che è vera causa dell’attuale stato di cose. Auspico un azzeramento generale e generalizzato, non per poi ‘ricominciare’, ma per restare a zero.

Zero di che? Serve fare l’elenco di ciò che ‘serve’ in questa bella società dei consumi?

Zero telefonini, tanto per fare un esempio, per citare la punta dell’iceberg (non come Giulio che lo brandisce fino alla fine. Cacchio, sei alla fame, vendilo sto cellulare!).