Dopo il post pre-recensione di Intanto anche dicembre è passato – il nuovo libro di Fulvio Abbate (Baldini & Castoldi, 2013) ecco il seguito dopo la lettura:
Avete mai vinto una scommessa? Io sì, più di una; benché abbia una naturale avversione al rischio, talvolta mi arrischio. Come con questo romanzo di Abbate, il primo che abbia letto.
Abbate lo conoscevo solo tramite le performances di Teledurruti o i suoi pezzi su Il Fatto.
Il rischio risiedeva nella sindrome da ‘sabato del villaggio’, nell’eccessiva aspettativa rispetto all’effettivo piacere che avrei provato nell’atto concreto della lettura.
Ebbene, sebbene tratti di ricordi d’infanzia di un’epoca addirittura precedente la mia nascita (le auto, le riviste, le collezioni di figurine) l’efficace affabulazione trasporta il lettore con naturalezza nel tempo, consentendo l’identificazione con l’io narrante (Abbate bambino).
E’ un testo capace di far sorridere (quando Hitler, l’imbianchino ingaggiato dal nonno viene cazziato da quest’ultimo per la sua negligenza nei lavori di tinteggiatura) e di far ridere (la scena in cui lo stesso Hitler, all’uscita dal cinema, molla uno sganassone al povero piccolo Abbate dopo aver appreso della sua defaillance a scuola -non riusciva disegnare un cubo – per mostrare adeguata severità a Crostaccia, il maestro incontrato lì per caso).
Ma anche di commuovere, quando l’io narrante ormai adulto rievoca la scomparsa degli anziani genitori; e lo fa a modo suo, ‘da Abbate’, ricordandoci “quali meravigliose risorse possediamo noi esseri del creato, perfino nei peggiori momenti, quando sembra che non ci sia nulla cui sorridere”.
Qui si riesce a trattare con garbo e levità il tema della morte, si evoca il memento mori con l’aneddoto dell’addetto morto al’improvviso, di infarto, alla guida del carro funebre.
E ancora prima, di ritorno da Parigi, dove con tutti parenti si era recato in treno (il razzo progettato da Majorana sul terrazzino non era pronto) con lo stridente accostamento fra divi (Belmondo, Camus, Nimier) e le immagini di auto accartocciate, salme ricomposte alla morgue.
Trattasi in definitiva di autofiction, mescolanza di fantasia e realtà, con una ‘trama’ assai improbabile. Hitler, ospite a Palermo, si innamora di una cassiera di rosticceria e, noncurante della pupilla di fuoco incandescente che non smette di puntarlo (un parente che non vede di buon occhio, è il caso di dirlo, la relazione) finisce, probabilmente, incaprettato.
Majorana invece, altro desaparecido redivivo nel romanzo, dopo aver dato lezioni di matematica al bambino Abbate e progettato il suddetto razzo (entrambe imprese fallimentari) scompare definitivamente, travestito da suora, prendendo un treno con destinazione ignota, non prima di aver chiesto al nostro bambino cosa intendesse fare da grande, il quale risponde, pascolianamente, che coltiverà per sempre il fanciullino che è in sé.