ESSERE PORTO IN QUESTO TRIBUNALE DEL MARE

kevin-carter-bimboe-avvoltoioE’ stato quel “Teatro d’Attore”, “Human”, magistralmente messo in scena ieri al Sociale da Lella Costa, Marco Baliani e 4 giovani attori, che ti entra dentro ai pensieri, non solo perché, forse, c’era già quell’insenatura di attenzione e sensibilità al tema – profughi e umanità –  ma perché è stato in grado, come un’onda contro gli scogli di riproporti quelle storie e domande che pensi sempre di avere le risposte e invece, ti spiazzano e ti mettono davanti alle tue paure e ipocrisie.

Come facciamo se questi arrivano così in tanti? Quante volte abbiamo sentito questa domanda?

Ovunque, nei bar, nelle aule di Comuni e Parlamento, in ufficio, e ti accorgi mentre il palco è un turbinio di colori del Caravaggio e di vestiti sparsi che un tempo erano vivi, che la domanda ti affiora come i cerchi dell’olio nella minestra da piccoli: “occhi di strega”, che sì, l’abbiamo sentita anche dentro di noi. L’ho sentita anche dentro di me.

Quell’insenatura di attenzione mi ha spinto a non cacciarla indietro. E non cacciare indietro la paura, il bisogno, è già provare a trovarla una risposta, una possibile, una che ti permette di tendere la mano a te stesso, all’umano che sei e non al disumano che potresti diventare.

E una risposta possibile non è quella di contare quanti arrivano, mettere un numero, dargli un numero. Ma, mettere remi in acqua e vela dentro la domanda e capire che l’unico vento e l’unica vogata da fare non può che essere quella: se hai bisogno di aiuto e noi possiamo dartelo, lo faremo. Senza discriminazioni. E senza contare.

Questo Teatro di ieri, ben oltre la denuncia, lascia dentro altre domande, altra forza della ricerca della condivisione e del confronto, della necessità del dialogo e dell’interrogarsi; per esempio quando ti trovi di fronte alla fotografa (Lella Costa) che immortala un profugo in mare con un bambino convinta che muove più gli Stati e la politica una fotografia d’effetto, cruda, “con la tensione giusta”, di tante belle azioni; e a me viene in mente quella foto d’Africa, era il Sudan nel 1993, del Bambino e dell’avvoltoio, di Kevin Carter, così potente visivamente e non solo, che le emozioni non si riescono a descrivere a parole. E mi interrogo.

Credo che ognuno di noi debba fare il suo pezzo di strada, che può essere quello della consapevolezza, o della pulizia dai pregiudizi che nessuna vogata a mai smosso.

E credo, proprio perché siamo dentro questo mondo fatto di contraddizioni e mani non tese, di difficoltà ma anche gesti di speranza, che dobbiamo fare il nostro piccolo pezzo di corresponsabilità, essere la coperta che scalda chi, fuori all’addiaccio, in attesa che il mondo cambi e tu cambi il mondo, intanto muore di freddo.

Essere quell’insenatura che mette al riparo la barca, essere porto in questo Tribunale del mare

Con questa rappresentazione e canto, scelta con illuminata sensibilità e intelligenza, per aprire la Stagione Teatrale, usciamo più indignati, più commossi ma soprattutto più turbati e pieni di  pensieri perché quelle domande che sul quel palcoscenico sono state evocate, sventolate come vestiti e come vele, sono domande che erano rivolte ad ognuno di noi. A cui non possiamo e dobbiamo sfuggire. Come uno specchio per noi e la nostra società. Per come la faremo. E la stiamo facendo. Faticosamente diversa da chi non vuole vedere, da quel popolo del due di bastoni quando comanda danari.

Perché come puoi davanti al loro dolore continuare a cantare a narrare il tuo, di dolore? Forse puoi al posto di squartare il cuore per renderlo arido come unico modo per sopravvivere; aprirlo per provare a cantare assieme, per vedere ancora quel lume fioco su quella terra straniera, come il mito di Ero e Leandro.

Che sono le domande e l’umano, che ti fanno nuotare, tendere la mano e riconoscere non solo il dolore, ma la speranza e lo sguardo dell’altro. Dargli appunto un nome, un volto, una storia, riconoscerlo persona. Riconoscersi persone. Per Restare Umani

Perché, come dice Marco Baliani, l’attore e regista di ieri: “Solo se c’è lo sguardo io vedo l’altro. Nel nostro tempo invece siamo tutti così prossimi, ma non ci vediamo più”.

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