Le serate informative di argomenti difficili o hanno relatori di qualità o almeno devono avere testimoni diretti.
L’incontro di ieri, giovedì 18 dicembre 2008, sui fatti e le paure del G8 di Genova 2001 e della caserma di Bolzaneto, svoltosi a Lecco organizzato dalle realtà locali Qui Lecco Libera e Centro Khorakhané ha avuto entrambi i tipi di relatori.
Di qualità e testimoni diretti.
Hanno, infatti, interagito con i molti presenti – la sala era gremita (150-170 persone) di cui moltissimi giovani ventenni, cioè che ai tempi di Genova erano poco più che adolescenti – l’autore del libro: “Bolzaneto, la mattanza della democrazia”, che ha fatto da cardine alla serata, Massimo Calandri redattore del quotidiano la Repubblica, collaboratore della rivista Micromega e dell’Espresso, nonché Vittorio Agnoletto, oggi eurodeputato, che a Genova è stato il portavoce di quel movimento italiano composto da oltre 700 associazioni di uomini e donne, religiosi, lavoratori, operai, scout, dei centri sociali, contadini, migranti, si opponeva, ognuno per la sua parte, per la sua competenza, per le sue affinità, ma insieme, alla globalizzazione economica e finanziaria che, lì era rappresentata dai G8, che, è sotto gli occhi di molti in questi giorni, per ingordigia, cecità e modello, sta portando sempre un maggior numero di persone nel mondo – ricco e impoverito che sia – utilizzando gli strumenti deplorevoli della guerra, della finanza, dell’abuso. Del potere.
La serata ha ovviamente illustrato e ripercorso, a più riprese, i fatti avvenuti e i passi successivi sia in termini giudiziari – l’autore del libro Calandri, nella sua veste di giornalista ha seguito tutte le inchieste ed i processi sul G8 di Genova – che, di percorso sociale e di riscontro con l’opinione pubblica, ma si è soffermata soprattutto, con diversi passaggi emozionanti, di dolore collettivo, di compartecipazione, di ricordi e testimonianze su quel buco nero, quella violenza nascosta, quella mattanza della democrazia che è stata Bolzaneto.
Come Auschwitz è il simbolo dello sterminio programmato e attuato nella cecità collettiva mondiale, dell’ebreo e dei diversi, dei sommersi, Bolzaneto è stata, è, lo spavento, il simbolo e il monito che nel terzo millennio, in Europa, la tortura di corpi e di diritti, da parte dello Stato è stata ancora possibile.
E’ emerso chiaramente anche dalla testimonianza di Enrica Bartesaghi – presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova e mamma della mandellese Sara Gallo sequestrata a Bolzaneto – il dolore indelebile di appartenere, vivere, in uno Stato che non è stato più Stato.
E scoprire cosa vuol dire, sulla propria pelle: “Come sia possibile che in Italia, nel 2001, si possa perdere una figlia. Perdere perché non sai dov’è finita. E quando perdi una figlia dove vai per prima cosa? Dai Carabinieri, dalla Polizia e poi scopri – Enrica ha scoperto e con lei almeno 252 famiglie – che sono stati loro, nei fatti, a far sparire tua figlia”
E anche nel pubblico, si percepisce, si materializza, il brivido lungo la schiena.
Potevi essere tu il figlio, potevi essere benissimo tu il genitore.
L’ha raccontato bene il giornalista Calandri:“in occasione delle manifestazioni che contestarono il G8, 252 persone vennero “arrestate”, 55 “fermate” dalle forze dell’ordine e rinchiuse nella caserma di Bolzaneto in maniera arbitraria, senza ragione, senza diritti.
Tre giorni e tre notti che solo la storia potrà restituirci. E dove, poi nei e dai processi – ma ben oltre – è emerso che i manifestanti hanno detto la verità.
Non è un accidente o un disgraziato episodio quel che è accaduto a uomini e donne. Adulti e giovani. Ragazzi e ragazze, un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione. Spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano. Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…) Quel che è accaduto tra venerdi 20 e domenica 22 luglio 2001 nella caserma di Bolzaneto è un evento che segna in modo decisivo lo spazio politico di una modernità che, sempre più diffusamente, sospende in alcuni luoghi ogni diritto, crea spazi d’eccezione e, sempre più, quest’eccezione viene realizzata normalmente.
La caserma di Bolzaneto è diventata in quei tre giorni questo: un’area territoriale posta fuori dall’ordinamento giuridico, al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario; una zona d’indistinzione tra eccezione e regola, lecito e illecito in cui ogni protezione giuridica è venuta meno.
Nulla dal processo che ne è seguito è stato smentito di quello che le vittime hanno detto. “Grave compromissione dei diritti delle persone”. “Comportamenti inumani e degradanti”. “Una costante violazione delle libertà fondamentali”.
In una parola: tortura. Più in generale, uno “stato di eccezione”, cioè la sospensione delle garanzie democratiche sancite dalla nostra Costituzione. Con la complicità dei Governi, di entrambi gli schieramenti, che l’hanno permesso e mai si sono opposti, anzi hanno avallato, promosso responsabili, rendendosi complici.
Violenze, abusi psicologici, minacce, privazioni, offese. Per fermare quella parte del movimento, la quasi totalità, che pacificamente era scesa in piazza a dire che un “mondo migliore è possibile” lasciando liberi e impuniti e troppe volte usandoli i violenti.
Non c’è stata però tortura. Non è una contraddizione. L’ha detto la recente sentenza del tribunale di Genova a chiusura del primo atto sui fatti di Bolzaneto.
Il reato non è contemplato dal nostro codice.
Anche per questo, ha confermato durante la serata Vittorio Agnoletto, “Giustizia non è stata proprio fatta”
Ogni cittadino provi a valutare se per esempio il taglio forzato di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana, lo strappo della mano divaricata a forza di Giuseppe Azzolina, la testa nella tazza del cesso, le minacce di morte, di sodomia e di stupro non sono reati gravi, non sono comportamenti che, seppur ritenuti veri, sono assimilabili alla tortura.
E sta qui l’aspetto più grave di questa vicenda. La prova di un’inciviltà atavica mai in realtà superata. Di un arbitrio inseparabile dal potere e dal “senso dello stato” di quelli che ne dovrebbero essere i “tutori” e i garanti. La sentenza ne è la sanzione.
Archivia, con un’alzata di spalle e un ammiccare di sguardi, l’orrore di quelle giornate. Sanciscono la normalità dell’abnorme.
Proclamano l’irrilevanza pubblica della trasgressione estrema. Non sono negati i fatti. Né confutati i testimoni. Anzi: tutto ciò che abbiamo ascoltato, le sevizie, gli oltraggi, i corpi umiliati e colpiti, con sistematicità, per giorni, è assunto come vero.
Nello spazio pubblico e giuridico italiano, la tortura e la sua pratica non può essere riconosciuta come rilevante. Per questo chi l’ha compiuta, chi ha varcato quel confine, se ne è potuto andare assolto. O con piccoli, impercettibili graffi sulla fedina penale. Continuerà a rappresentare lo “Stato”. Sarà il “noi” collettivo in cui dovremmo specchiarci.
Questo è l’aspetto più odioso di quella sentenza che è stata raccontata nel libro: lo scarto, osceno, che c‘è tra l’enormità della ferita e la leggerezza del giudizio e delle parole in difesa dell’indifendibile.
Ma i tanti giovani presenti in sala ieri, e la loro età molto bassa, infondono un poco di speranza, hanno deciso, ieri e soprattutto prima che bisogna intervenire, bisogna impegnarsi. Essere testimoni, essere protagonisti per costruire un mondo migliore.
Il libro: “Bolzaneto, la mattanza della democrazia”, ed. DeriveApprodi è un pugno nello stomaco, che non deve far cadere per terra il lettore, deve farlo alzare in piedi. Deve essere cittadino. Quel cittadino che ancor oggi non crede, quello che ancor oggi è indifferente.
Il libro sa con capacità e lucidità raccogliere le sconvolgenti testimonianze delle vittime, la vergogna dei carnefici, rispondere e spazzare via il retropensiero che: “ok ti è successo tutto questo, te lo sei andato a cercare, però”
Dalle testimonianze dei relatori – salutati con gratitudine dal pubblico con molteplici applausi che hanno sciolto la rabbia del ricordo e dell’ingiustizia – è emerso come, in quei giorni c’erano distinte due forme di violenza: la barbarie degli agenti che sfogano la propria frustrazione sul malposto di turno e l’azione ordinata e avallata dal potere.
E come lo Stato non ha voluto punire se stesso.
E tutti, poliziotti, ufficiali, vice questori, questori sono stati promossi. Nell’assordante silenzio anche del sindacato di polizia.
A Genova il potere ha ribadito che le forze dell’ordine possono fare quello che vogliono, perché sono sopra e oltre la legge.
La serata di giovedì sera ha aiutato a capire che l’informazione libera è fondamentale per uno Stato di diritto, che grazie a uomini e donne come i relatori c’è speranza.
E’ grazie a chi trova, non il tempo, ma il coraggio di scrivere e parlare di Genova che un altro mondo migliore è possibile.
Che un altro mondo migliore è in costruzione
E non importa da che parte stiamo politicamente.
Forse è il caso di dirsi e di dire: A Bolzaneto, a Genova, alla scuola Diaz c’ero anch’io. Perché la democrazia è affare di tutti, non di pochi don chisciotte.
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Niezmiernie się cieszę że ktoś ma w sobie tyle pasji. Powodzenia. Basia z gejownia.pl