SE TUTTO CIO’ CHE HAI E’ UN MARTELLO, TUTTO TI SEMBRERA’ UN CHIODO

Sempre interessanti gli interventi de Il Tirabagia su La Provincia di Lecco. Stimolanti. Questa volta (1 giugno, pag13) affiancato a Marco Campanari ne esce però un quadro che non mi convince appieno. Entrambi dicono la verità ma non la dicono tutta.

Sono imprenditori, senz’altro capaci, ma come si dice, se tutto ciò che hai è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo.

Come una cantilena, come voler ributtare la palla nel campo avverso, imputano le colpe dei ritardi, delle inefficienze, al “Sistema zavorra” al “Sistema Paese”, alle Banche. Non che non sia vero ma anche un poco di autocritica? Non si legge una frase, una riga, una parola, che individua almeno come corresponsabili le imprese stesse, gli imprenditori. C’è chi ragiona per problemi e chi ragiona per soluzioni. Ma se addirittura si rimuovono alcuni problemi, tanto più se causati da se stessi, e quindi potenzialmente più facili da risolvere, diventa difficile mettere in campo soluzioni efficaci. Il guaio è che questo non giova per nulla né agli stessi imprenditori nè tantomento serve a farci uscire dalla crisi economica.

Non ho nessuna competenza imprenditoriale ma ho decenni di impiego nel mondo del Credito. Non mi sfiora nemmeno l’idea di difendere le banche, mi limito soltanto ad aggiungere, al ragionamento, quello che Il Tirabagia e Campanari, ma non solo loro, non vedono, non affrontano, non dicono.  La quantità, impressionante, di imprenditori che già negli anni passati e per anni, hanno sottratto denari all’Azienda. Tutto legalmente. Intendo che non hanno investito. Gli utili, molti, troppi, utili sono diventati solo ricchezza personale.  Meno legalmente, una quantità, impressionante, di imprenditori per anni, hanno esportato non merce ma ricchezza e liquidità nei paradisi fiscali, soprattutto qua ad un passo, giusto oltre il lago. E’ un dato oggettivo. L’ammontare dei capitali scudati è stato di oltre 180 miliardi di euro. E solo nell’ultima tranche, una parte appena più consistente è stata rimpatriata per metterla nell’azienda. Si giocava in borsa, si compravano polizze assicurative, gestioni patrimonali, trust, si faceva denaro con denaro.

Oggi si le Banche hanno, in gran parte, chiuso i rubinetti del credito e soprattutto aumentato lo spread, i loro margini per finanziare l’impresa, ma è bene ricordare che diminuendo da tempo fatturati e commesse diminuiscono anche gli investimenti ed, in parte, la necessità di denaro. La vergogna vera è che le banche il denaro lo fanno pagare troppo, troppo (e immotivatamente) caro. E non si fidano, (solo in parte a ragione), dei loro clienti. Ma, domando, le aziende lo chiedono ancora così alla grande questo credito o si son fermate anche loro? Non è che uno può, infatti, chiedere prestiti all’infinito. Ancor prima di con che redditi li garantisce, con che redditi li ripaga? E se non investono gli imprenditori nella loro azienda perché deve investirci la Banca?

Ma l’aspetto, cronico, che il Tirabagia e Campanari eludono, imputando le colpe dei ritardi, delle inefficienze, al “Sistema zavorra” al “Sistema Paese” è il perché i concorrenti europei progrediscono e mandano le nostre PMI fuori mercato. Sono molto recenti i dati, davvero impressionanti, di una ricerca del 2011 del Prof. Riccardo Gallo secondo cui il periodo di ammortamento medio dei beni strumentali delle imprese italiane è di 26 anni, mentre quello delle imprese europee (Francia, Germania ed altri paesi del nord Europa) è di 13 anni. Ciò significa che questi sono anche i periodi in cui le imprese italiane e tedesche rinnovano i loro beni strumentali, acquisendo nuove e più avanzate tecnologie. E questi ritardi si cumulano nel tempo, spingendo tante nostre imprese fuori mercato. Ma appena 8 anni prima, nel 2003, le imprese italiane erano all’incirca sulla linea delle altre, con un periodo di ammortamento medio dei loro beni strumentali di 16 anni. Guarda caso, mi vien da sottolineare, questo avveniva prima della grande ondata di precarizzazione del lavoro dovuta alla c.d. Legge “Biagi/Maroni”, il Decreto Legislativo n° 276 del 2003.

E’ solo un caso?

Finchè i vari Tirabagia e Campanari auspicano, nei fatti, una maggior flessibilità del lavoro saremo perdenti. Tutti. Noi e gli imprenditori. Se l’impresa non può licenziare facilmente il lavoratore è portata ad investire in impianti, macchinari, formazione, formule organizzative più efficienti, ecc. per far rendere al massimo il lavoro. Se, invece, l’impresa può mandare via quando vuole il lavoratore precario non ha interesse a fare gli stessi investimenti o ce l’ha in misura molto minore, tanto pensa di guadagnare grazie al minor costo del lavoro. Lo dicono i dati, i numeri. La realtà.

Non è un caso, quindi, che gli anni della precarizzazione del lavoro (dal 1995 in poi, ma soprattutto dal 2003 in poi) siano anche gli anni del crollo della produttività del lavoro e degli investimenti delle imprese. C’è chi dice, e io sono d’accordo, che la precarietà del lavoro ha portato alla precarietà dell’impresa italiana, alla sua bassa innovatività ed al declino complessivo della nostra economia.

Mi permetto, sommessamente, di portare anche questi elementi all’attenzione dei tanti Tirabagia. A partire, ovviamente, dall’originale. Contando sulla sua acutezza.

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