IL DOMIN(i)O flessibile

Il dominio flessibile, che nella fabbrica, nei supermercati, nelle realtà produttive in genere, monta come un fiume a volte carsico  a volte più evidente – basta assistere alle riunioni, alle convention, ai workshop ect. –  è quello scambio simbolico e ineguale tra disponibilità ad accogliere in tempo reale le richieste variabili dell’azienda e una inclusione rischiosa, temporanea e comunque incerta, nei suoi piani produttivi, e assume sempre più una funzione dominante e paradigmatica.
Credo che, questo, sia un elemento che ogni lavoratore debba tenere in considerazione e analizzare per porvi argine, difesa e soluzione.

Muovendo dalle forme più fluide del lavoro, infatti, ci accorgiamo che i dispositivi ed i miti della flessibilità sono di casa come pratica quotidiana.

Ma anche i traumi, le ansie, le angosce e le paure che i processi di individualizzazione esasperata, di precarizzazione generalizzata e di insicurezza strutturale portano con sé. (Non parlo solo o prioritariamente della già famosa Legge 30 o della Fornero, che comunque gli esaspera). Nonché le dinamiche di quella “zona grigia”  in cui i tentativi di sopravvivere ai dispositivi totalizzanti frantumano la forza lavoro in un pulviscolo di monadi solitarie protette da una pellicola di indifferenza morale e nondimeno afflitte da un’endemica sofferenza identitaria.
Nel dominio flessibile messo in campo ormai diffusamente dal mondo produttivo, sopravvivere è più che mai “questione comune” orientata ad istituire il diritto universale, per troppi negato, alla piena cittadinanza. E questo avviene fin dall’inizio.
Frasi tipo: “Benvenuta/o in quest’azienda. Un’azienda che ti chiede tanto ma ti dà anche tanto. Dipende da te”, o ancora: “Qui, se vuoi, puoi fare tanta strada, puoi fare carriera, puoi passare in fretta da commesso a qualcosa di molto più importante. Dipende solo da te” “L’azienda sa compensare chi le è fedele chi comprende e si adopera per far marciare i suoi progetti chi si dimostra all’altezza della situazione”. Ed è qui che emerge – e si codifica – lo scambio simbolico tra disponibilità ed inclusione.
Qui si palesa nella nuda essenzialità il dispositivo portante su cui s’imperniano il lavoro e il dominio flessibile: appunto lo scambio simbolico tra disponibilità e inclusione, tra libertà personale e sicurezza. Dove per disponibilità si intende la propensione del lavoratore a identificarsi temporaneamente ma totalmente con l’azienda, ad accogliere in tempo reale le sue richieste variabili, al di qua di ogni diritto e al di là di ogni altro impegno; e per inclusione una presenza instabile e temporanea nei piani dell’azienda connessa alla capacità di “dimostrare di propria iniziativa, di essere migliore di altri, di saper portare più numeri e profitti all’azienda” e di meritare perciò di mantenere il ruolo (il posto) di lavoro.
Ma questo è quello che in parte, oggi, non cogliamo appieno ne noi ne (la maggior parte ) i sindacati. E questo l’azienda lo sa.

E’ una valutazione, un’opinione non un (pre)giudizio ma chi accetta e si annulla in questo scambio viene a trovarsi, di fronte all’azienda, in una posizione estremamente vulnerabile, esasperatamente singolarizzata e del tutto spoglia di diritti collettivi e di concrete sicurezze personali. Nei riguardi degli altri lavoratori sarà invece nella posizione di un avversario interessato esclusivamente a ricercare maggiori privilegi e ad accrescere, per quanto possa e ci riesce, il proprio ruolo di potere.Corridoi degli uffici, scrivanie e casse di supermercati, reparti e catene di produzione infatti, diventano ogni giorno di più “palcoscenico di una competizione furiosa, all’ultimo sangue, tra individui in lotta per farsi notare dai capi e ottenere la loro approvazione” . E anche questo l’azienda lo sa.

E sa che si tratta ovviamente di uno scambio ineguale, come del resto sempre avviene negli scambi tra capitale e lavoro, ma qui il “capitale” tende a mangiarsi, per così dire, oltre al lavoro anche il lavoratore. E lo fa anche (a volte) con elargizioni ad personam.
Così come il cliente che cedendo all’incanto della merce riempie il suo carrello d’effimere illusioni, il lavoratore che insegue il miraggio dell’inclusione svuota la sua esistenza di ogni altra ricchezza relazionale. Prigioniero dello scambio che ha sottoscritto, egli potrà sopravvivere solo in competizione con tutti gli altri, (budget, report settimanali, lotta tra agenzie, tra filiali, concorrenza e spionaggio e quant’altro) senza poter mai stringere una qualsivoglia alleanza solidale. E’ il trionfo della solitudine e dei “motivi personali” accompagnati dalle più indicibili pratiche che sempre, ad essi, nella storia, hanno fatto appello per legittimarsi.
Lo ricorda anche Primo Levi “I boia erano degli uomini comuni che hanno accettato il ruolo di aguzzini ciascuno per un motivo personale”. Per accrescere le proprie probabilità di sopravvivenza. E qui prendono piede le forme trasversali del dominio. Perché qualunque sia la forma contrattuale, ai lavoratori viene chiesto di adattarsi a forme supplementari di flessibilità che interessano il tempo, lo spazio e le mansioni. La flessibilità trasversale non è solo aggiuntiva. Essa infatti moltiplica, per l’azienda, le opportunità di rispondere in tempo reale alle richieste del mercato.
I lavoratori, al contrario, in seguito ad esse vedono accrescersi i margini d’incertezza del loro orizzonte fino a perdere la possibilità stessa di programmare, anche a breve termine, il proprio futuro. In questo incrocio distruttivo tutto si fa letteralmente precario nel doppio senso della parola: che può essere ottenuto o scongiurato a mezzo di preghiere; che nessuna preghiera potrà mai acquisire o scongiurare definitivamente qualcosa. Ed è vero, sebbene non sembra per qualcuno, ognuno di noi, anche gli “insospettabili”, ha un capo a cui rispondere a cui rendere conto, da cui ottenere approvazione.

Ad oggi chi non rispetta “la filosofia aziendale”, chi non capisce, o non vuole capire, che tali richieste nascondono la “semplice” prova di appartenenza, la dimostrazione della condivisione dell’ethos di gruppo, dello spirito di corpo, la concreta possibilità di dire ad alta voce: “l’azienda sei anche tu” e  prova ad andare contro la richiesta dell’azienda, non ottiene il rispetto dei suoi diritti ma una pressione ancora maggiore. Sei un numero, ragazzo. È’ il mercato, ragazzo.

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