Il patriottico 2 giugno si è espresso sotto forma di parata militare perché la Repubblica sarà pure fondata sul lavoro ma se il lavoro manca è meglio tener ben visibili i militari.
Guardiamo la realtà delle nostre imprese locali che chiudono baracca e burattini lasciando con tante preoccupazioni un mucchio di lavoratori.
Va bene cadere anche noi, che non c’entriamo nulla, nei loro buchi. Ma in cambio potrebbero farci salire, quando le cose vanno bene, sulle loro montagne di quattrini. Ci basterebbe raccogliere qualche spicciolo per sentirci coinvolti. Ma vacca boia questo non capita mai.
Abbiamo fatto caso a questo, che non capita mai?
Se il gruppo dirigente e proprietario di un’impresa locale colleziona sconfitte, che cosa suggerisce la famosa “etica del capitalismo”? Licenziare tutti i dipendenti e assumerli, sotto altro padrone, con una decurtazione del 30% della paga.
Prendere o lasciare.
La nave affonda senza capitano
Le aziende – vedasi qui sul territorio la Brambilla, la Leuci, la Velluti Redaelli, ecc – restano le uniche navi al mondo sulle quali il capitano non affonda mai insieme alla ciurma.
Pensiamoci.
Se è vero che gli esseri umani, nella logica aziendale, sono solo pezzi di una fabbrica, perché non dovrebbero esserlo, a maggior ragione, dirigenti, manager e padroni?
Pensate che splendida figura, davanti ai sindacati ed a quello che resta della morale pubblica, sarebbe auto-licenziarsi, svendere i beni di famiglia, le diverse case che si hanno, le ville che si vogliono ingrandire, gli immobili aziendali che si vogliono trasformare in multi appartamenti.
Ed invece la vita è dura e ingenerosa. Tra le eleganti macerie del mito della fabbricchetta brianzola, a dispetto di PGT, Consigli Comunali, cittadini, può ancora echeggiare solo il vecchio, volgarissimo ma lucido slogan dell’operaismo sessantottino: “come mai, come mai, sempre in culo agli operai?”
A guardare bene la realtà, infatti, la convinzione è quella che il mondo è ancor pieno di questi capitani d’industria, di questi padroni che ci fanno la morale, ci dettano le ricette e poi alla chetichella mandano a remengo la loro fabbrica, con dentro però centinaia di lavoratori.
Alcuni la morale l’han fatta pure dalla cattedra di un ministero.
Di questi miliardari che buttano il conto in banca oltre l’ostacolo e puntano “solo” (tutti) i loro operai sulle più scombiccherate roulotte della finanza, che investono in appartamenti, in ministeri, nel mercato della borsa, in oriente, su qualche associazione multiculturale, non ne dovremmo avere piene le tasche, avendone piena la provincia?
Eppure questi non li vedi mai, in nessun bar, dove è pieno, di aspiranti al lastrico.
Chissà perché non ce né mai uno al tavolino di fianco, nessuno di quelli che qui ha chiuso baracca e burattini.
Del resto, se il denaro diventa un valore assoluto (non più quantificabile, cioè, in rapporto a ciò che serve a comperare, ma stimabile e venerabile in sé) che cosa può valere una vecchia fabbrica, un vecchio stabile neogotico di fronte alla bellezza definitiva di qualche milione di euro?
Non si può nemmeno appiccarci il fuoco a quelle fabbriche, piene come sono di amianto.
Il conto anche questa volta lo paga qualcun altro.
I soliti.
Famiglie e (ex)lavoratori.