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l’educazione SENTIMENTALE E CULTURALE CHE ANCORA CI MANCA

TRIBUNALINon ho levigati strumenti intellettuali e lessicali per argomentare meglio e sono così inadeguato che non vorrei banalizzare una vicenda che ferisce nel profondo. Ma la recentissima sentenza di assoluzione dall’accusa di violenza sessuale emessa da un Tribunale di Torino con, tra le varie motivazioni, quella: “perché non ha urlato”, è di una sofferenza gigantesca che non riesco a tacere.

É un’umiliazione da vedere e sentire, che parla, a ognuno di noi. Dire, come si sta facendo spesso, che questa sentenza umilia la vittima è però aggiungere violenza, supplemento di dolore e inoltre, mica poi tanto sottilmente, è anche attribuire responsabilità, colpe che non ha e non può avere chi questa violenza ha subito.

Io credo che sempre più debba emergere lo sguardo collettivo sia di indignazione che di sofferenza che ognuno di noi deve coltivare per le ingiustizie in quanto tali, sguardo a partire dall’aspetto culturale. Ben prima di Leggi più severe, ben oltre poi dal chiederle perché la donna sarebbe un soggetto debole, fragile che la società deve mettere sotto tutela, (non ho mai creduto alla donna da vedere come soggetto fragile in quanto donna, ma credo all’uomo violento) penso che ben prima o certamente di pari passo all’aspetto legislativo – anche perché vediamo che le Leggi possono venir indecentemente interpretate – il nocciolo del tutto stia nella questione culturale che come società non abbiamo ancora elaborato.

La violenza è il volto di una questione di linguaggio, di atteggiamento, culturale dentro la disuguaglianza dei ruoli di potere ancora incentrati in una visione maschilista. E di educazione sentimentale.

Penso e sono fortemente convinto che qui il problema non è che chi ha subito una violenza sessuale non ha urlato o doveva urlare. Ma capire che non c’era bisogno di nessuna parola, di nessun no urlato o sussurrato flebilmente. Perché le violenze verso l’altro sono già da ritenersi tali nel momento del pensiero di compierle. Non serve per forza la benzina per rendere una persona vittima.

Bastano e servono semplicemente la volontà di farle male, ancor prima di farglielo. Basta il pensiero, l’intenzione.

E quindi quell’uomo andato assolto dal Tribunale come tutti non doveva attendere nessun no, urlato o sussurrato più o meno flebilmente, per non compierla.

Per capire che era e resta una violenza la sua. A prescindere e ben oltre da qualsivoglia sentenza, qualsivoglia assoluzione. Perché è una crescita culturale e sentimentale individuale e collettiva che finalmente dovrebbe dirlo.

Inappellabilmente.

OMG: UN CONTAINER DI AIUTI O PIU D’ESEMPIO?

mato-grosso-volantinoQuesta mia vuole essere una riflessione, un possibile spunto civile di discussione, non certo una polemica.

Solo pochi giorni fa si è conclusa con enorme e meritato successo la raccolta viveri a Lecco per una mensa dei poveri in Perù ad opera dell’Operazione Mato Grosso.
Centinaia e centinaia di ragazzi dietro il motto: “Oggi lotto per la carità” hanno girato per le case dei lecchesi,volantinato, raccolto viveri, smistato alimenti, impacchettato cibo, impilato scatoloni, riempito all’inverosimile un mega container che troneggiava in Piazza Garibaldi.
250 quintali di alimenti, pasta, riso, tonno, zucchero, sale, biscotti, farina ect.

La presenza oltre dei cittadini anche dell’Amministrazione ha creato un legame e una valenza ancora più solidale, c’era così tutta la città simbolicamente in Piazza. A riempire quel container.

“Mettere il container in piazza mi è da subito sembrata una bella idea – ha detto giustamente il Sindaco Brivio – al centro di ogni città dovrebbe essere costruita la giustizia”

Mi chiedo, da qui la riflessione, se tali raccolte però poggino in egual modo sui due piatti della bilancia: Quello della Giustizia e quello dell’Esempio e testimonianza.

Mi spiego.
Il Piatto della Giustizia, non dovrebbe vedere più proficuamente il sostegno dei poveri in Perù, e in generale nei Paesi impoveriti, attraverso l’acquisto dei beni di consumo e di sostentamento là negli stessi luoghi di vita?

Questo non aumenterebbe il benessere e anche l’economia locale e le micro imprese, ben più che acquistare qui da noi cibo e alimenti da inviare con ulteriori costi?
Un poco come è nella filosofia del commercio equo e solidale: Insegno a pescare oltre che dare il pesce.Il Piatto dell’Esempio e della testimonianza, viene invece rafforzato e alimentato più efficacemente dalla scelta di raccolta qui a Lecco. Le persone, studenti e in generale cittadini, quando qui vanno a volantinare, raccogliere, inscatolare, organizzare la spedizione si danno da fare, lavorano e utilizzano il loro tempo per gli altri, non mandano semplicemente dei soldi, e poi il lavoro è visibile e diventa testimonianza del “farsi prossimo” che sta alla base del generare e promuovere esempio.

E ’un cattivo dilemma, inutile, il mio o un possibile spunto civile di discussione?

NO, NON FA RIDERE

www.youtube.com/watch?v=ptUVucqib4Y QUI IL VIDEO

NO!!!, NON FA RIDERE.

Non so se in questi casi bisogna tenere un profilo basso e non dargli rilevanza e vergognarsi ed indignarsi in silenzio oppure, come credo, segnalarlo e farlo conoscere augurandosi un’indignazione personale e collettiva pubblica.

La gravità immensa e potenziata di quanto è successo in questa occasione, all’interno di uno studio televisivo e in un programma giovanile e di successo è dolorosa: Bisogna ridere davanti a una molestia, una violenza, sessuale normalizzata, travestita da scherzo dove, tutti e tutte, infatti, ridono in un’autoassoluzione che indigna, sconforta e preoccupa.

Abbiamo, uomini e donne, molta strada da fare.

https://www.youtube.com/watch?v=ptUVucqib4Y

“Perchè non ha urlato” L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE E CULTURALE CHE ANCORA CI MANCA

basta-violenzaNon ho levigati strumenti intellettuali e lessicali per argomentare meglio e sono così inadeguato che non vorrei banalizzare una vicenda che ferisce nel profondo.

Ma la recentissima sentenza di assoluzione dall’accusa di violenza sessuale emessa da un Tribunale di Torino con, tra le varie motivazioni, quella: “perché non ha urlato”, è di una sofferenza gigantesca che non riesco a tacere.

É un’umiliazione da vedere e sentire, che parla, a ognuno di noi.

Dire, come si sta facendo spesso, che questa sentenza umilia la vittima è però aggiungere violenza, supplemento di dolore e inoltre, mica poi tanto sottilmente, è anche attribuire responsabilità, colpe che non ha e non può avere chi questa violenza ha subito.

Io credo che sempre più debba emergere lo sguardo collettivo sia di indignazione che di sofferenza che ognuno di noi deve coltivare per le ingiustizie in quanto tali, sguardo a partire dall’aspetto culturale.

Ben prima di Leggi più severe, ben oltre poi dal chiederle perché la donna sarebbe un soggetto debole, fragile che la società deve mettere sotto tutela, (non ho mai creduto alla donna da vedere come soggetto fragile in quanto donna, ma credo all’uomo violento) penso che ben prima o certamente di pari passo all’aspetto legislativo – anche perché vediamo che le Leggi possono venir indecentemente interpretate – il nocciolo del tutto stia nella questione culturale che come società non abbiamo ancora elaborato.

La violenza è il volto di una questione di linguaggio, di atteggiamento, culturale dentro la disuguaglianza dei ruoli di potere ancora incentrati in una visione maschilista.

E di educazione sentimentale.

Penso e sono fortemente convinto che qui il problema non è che chi ha subito una violenza sessuale non ha urlato o doveva urlare. Ma capire che non c’era bisogno di nessuna parola, di nessun no urlato o sussurrato flebilmente. Perché le violenze verso l’altro sono già da ritenersi tali nel momento del pensiero di compierle. Non serve per forza la benzina per rendere una persona vittima. Bastano e servono semplicemente la volontà di farle male, ancor prima di farglielo. Basta il pensiero, l’intenzione.

E quindi quell’uomo andato assolto dal Tribunale come tutti non doveva attendere nessun no, urlato o sussurrato più o meno flebilmente, per non compierla. Per capire che era e resta una violenza la sua. A prescindere e ben oltre da qualsivoglia sentenza, qualsivoglia assoluzione. Perché è una crescita culturale e sentimentale individuale e collettiva che finalmente dovrebbe dirlo.

Inappellabilmente.

CAMBIARE PUNTO DI VISTA: quando la violenza contro le donne non la leggiamo nemmeno

teatro-esterno-doppIeri sera, all’interno delle numerose iniziative lecchesi per la sensibilizzazione contro la violenza sulle donne organizzate dal Fondo Carla Zanetti e dal Comune di Lecco – che continuano con la bella Mostra “Donna Arte” fino al 4 dicembre in Torre Viscontea – è andato in scena, in un gremitissimo Teatro delle Società, uno splendido racconto di Teatro civile.
“Doppio Taglio-come i media raccontano la violenza”. Sul palco l’attrice e autrice Marina Senesi in un esercizio disvelatore di come la stampa affronta la tematica della violenza contro le donne.

Con le immagini che scorrono parallele al racconto, scopriamo – spesso pur avendole già lette e non avendolo notato, ahimè, e sta qui tutta la gravità, quello che fa male, dovrebbe far male, far riflettere, lo spettatore – che la cronaca raramente si sottrae alla regola di una tradizione letteraria volta ad alleggerire la responsabilità dell’aggressore se si ritiene che la donna abbia varcato i confini imposti al suo genere.

Sul palco, infatti, viene decostruito l’impianto lessicale e iconografico dei molti, troppi articoli di giornale che fanno doppia violenza alla donna, mostrandone il taglio, ormai quotidiano, normale, sempre uguale, di quella modalità comunicativa che non è mai neutra.

Perché dove le violenze vengono derubricate attraverso stereotipi e luoghi comuni, che le classificano come raptus, gelosia, amore malato.
Che vengono distorte al punto tale da trasformare l’uomo, responsabile della violenza, nella vittima della situazione, e la donna in colei che in qualche modo se l’è cercata, è anche involontariamente un modo per costruire, legittimare, un appiglio per una giustificazione, un’attenuante.

Perché le parole, appunto, non sono neutre.

I mass media, man mano che lo spettacolo prosegue, si evidenzia come ci propongono immagini e racconti che rappresentano le donne dalla stessa visuale dei loro carnefici.

Perché se in un articolo si racconta la violenza subita da una donna sottolineando come era vestita o poco carina con il marito, se si insinua che, in fondo, se l’ècercata, se si parla di delitto passionale, se si umanizza l’uomo che si sfoga sulla moglie, nella cui vita si scava morbosamente per individuare aspetti che in qualche modo giustifichino la violenza perpetrata, è replicare nuovamente violenza ma anche nasconderla .
Perché, anche se involontariamente, costruisce, legittima, un appiglio per una giustificazione, un’attenuante. Un “se l’è cercata”.

Perché le parole, appunto, non sono neutre.

L’attrice si chiede, e ci chiede: “Una donna che si vede socialmente rappresentata così è incentivata alla denuncia? Perché mai dovrebbe fidarsi se sa che noi non stiamo dalla sua parte?”

Il risultato è di derubricare la violenza contro le donne a un fatto di costume e rinunciando a capire un fenomeno sociale dalla natura estremamente complessa. Il femminicidio è un fatto politico e culturale che riguarda i rapporti diseguali di potere fra uomini e donne. La violenza, e la violenza contro le donne in particolare, interpella il modo in cui ogni giorno siamo uomini e donne.
Interpella i nostri stereotipi, la nostra capacità di gestire il conflitto.
Cose che non si cambiano dall’oggi al domani, ma che almeno si possono iniziare a raccontare in modo diverso.

E “Doppio taglio” di ieri sera, ha provato a farlo, lo ha fatto.
Perché ci ha chiesto di “Cambiare punto divista”.

Perché sta lì, nel filo rosso dei rapporti diseguali di potere fra uomini e donne, il punto.  E i diversi modi di esercitare questo potere e questa violenza.  E’ nella quotidianità del nemmeno accorgersi di questa violenza, fisica e psicologica,che si annida la banalità del male. È dentro le parole d’uso comune,  veicolate dai mass media,  dalla ripetitività delle parole violente che perdono, solo apparentemente, la gravità, come lo è, invece, la violenza sminuita, banalizzata, non riconosciuta, il punto.
È una questione di linguaggio. E una questione culturale.
Perché le parole, appunto, non sono neutre.

E quel filo rosso, la vera causa di ogni femminicidio, non è che la libertà. Ci sono uomini che non perdonano la libertà di una donna di essere quella che vuole essere, la libertà di essere responsabile della sua vita.

E lo spettacolo chiude con un efficace volantino.
Un uomo colorato di azzurro consullo sfondo un castello fatato, un principe azzurro, che rivolto, in primopiano, verso ognuno di noi, sta alzando un pugno per picchiare.
Picchiare la donna e ognuno di noi.
E la domanda stampata grande che ci chiede: “ E’ il tuo principe azzurro?”
Una domanda rivolta alle donne ma, con evidenza, rivolta anche ad ognuno di noi.
“Vogliamo essere quel principe azzurro?” “Vogliamo giustificare quel principe azzurro?   

ESSERE PORTO IN QUESTO TRIBUNALE DEL MARE

kevin-carter-bimboe-avvoltoioE’ stato quel “Teatro d’Attore”, “Human”, magistralmente messo in scena ieri al Sociale da Lella Costa, Marco Baliani e 4 giovani attori, che ti entra dentro ai pensieri, non solo perché, forse, c’era già quell’insenatura di attenzione e sensibilità al tema – profughi e umanità –  ma perché è stato in grado, come un’onda contro gli scogli di riproporti quelle storie e domande che pensi sempre di avere le risposte e invece, ti spiazzano e ti mettono davanti alle tue paure e ipocrisie.

Come facciamo se questi arrivano così in tanti? Quante volte abbiamo sentito questa domanda?

Ovunque, nei bar, nelle aule di Comuni e Parlamento, in ufficio, e ti accorgi mentre il palco è un turbinio di colori del Caravaggio e di vestiti sparsi che un tempo erano vivi, che la domanda ti affiora come i cerchi dell’olio nella minestra da piccoli: “occhi di strega”, che sì, l’abbiamo sentita anche dentro di noi. L’ho sentita anche dentro di me.

Quell’insenatura di attenzione mi ha spinto a non cacciarla indietro. E non cacciare indietro la paura, il bisogno, è già provare a trovarla una risposta, una possibile, una che ti permette di tendere la mano a te stesso, all’umano che sei e non al disumano che potresti diventare.

E una risposta possibile non è quella di contare quanti arrivano, mettere un numero, dargli un numero. Ma, mettere remi in acqua e vela dentro la domanda e capire che l’unico vento e l’unica vogata da fare non può che essere quella: se hai bisogno di aiuto e noi possiamo dartelo, lo faremo. Senza discriminazioni. E senza contare.

Questo Teatro di ieri, ben oltre la denuncia, lascia dentro altre domande, altra forza della ricerca della condivisione e del confronto, della necessità del dialogo e dell’interrogarsi; per esempio quando ti trovi di fronte alla fotografa (Lella Costa) che immortala un profugo in mare con un bambino convinta che muove più gli Stati e la politica una fotografia d’effetto, cruda, “con la tensione giusta”, di tante belle azioni; e a me viene in mente quella foto d’Africa, era il Sudan nel 1993, del Bambino e dell’avvoltoio, di Kevin Carter, così potente visivamente e non solo, che le emozioni non si riescono a descrivere a parole. E mi interrogo.

Credo che ognuno di noi debba fare il suo pezzo di strada, che può essere quello della consapevolezza, o della pulizia dai pregiudizi che nessuna vogata a mai smosso.

E credo, proprio perché siamo dentro questo mondo fatto di contraddizioni e mani non tese, di difficoltà ma anche gesti di speranza, che dobbiamo fare il nostro piccolo pezzo di corresponsabilità, essere la coperta che scalda chi, fuori all’addiaccio, in attesa che il mondo cambi e tu cambi il mondo, intanto muore di freddo.

Essere quell’insenatura che mette al riparo la barca, essere porto in questo Tribunale del mare

Con questa rappresentazione e canto, scelta con illuminata sensibilità e intelligenza, per aprire la Stagione Teatrale, usciamo più indignati, più commossi ma soprattutto più turbati e pieni di  pensieri perché quelle domande che sul quel palcoscenico sono state evocate, sventolate come vestiti e come vele, sono domande che erano rivolte ad ognuno di noi. A cui non possiamo e dobbiamo sfuggire. Come uno specchio per noi e la nostra società. Per come la faremo. E la stiamo facendo. Faticosamente diversa da chi non vuole vedere, da quel popolo del due di bastoni quando comanda danari.

Perché come puoi davanti al loro dolore continuare a cantare a narrare il tuo, di dolore? Forse puoi al posto di squartare il cuore per renderlo arido come unico modo per sopravvivere; aprirlo per provare a cantare assieme, per vedere ancora quel lume fioco su quella terra straniera, come il mito di Ero e Leandro.

Che sono le domande e l’umano, che ti fanno nuotare, tendere la mano e riconoscere non solo il dolore, ma la speranza e lo sguardo dell’altro. Dargli appunto un nome, un volto, una storia, riconoscerlo persona. Riconoscersi persone. Per Restare Umani

Perché, come dice Marco Baliani, l’attore e regista di ieri: “Solo se c’è lo sguardo io vedo l’altro. Nel nostro tempo invece siamo tutti così prossimi, ma non ci vediamo più”.