LA PRECARIETA’ DEL LAVORO E’ QUELLA DELLE IMPRESE

Vi va di valutare l’art.18 sotto un aspetto non ancora trattato?

Partendo dalla domanda: A chi giova una norma così congegnata? Per quali motivi il Governo si gioca su di essa il capitale di credibilità faticosamente conquistato finora?

L’effetto più importante è che una norma simile permette di far diventare i licenziamenti collettivi per motivi economici dei licenziamenti individuali. Di conseguenza il costo di essi si sposta dallo Stato (Cassa integrazione, mobilità ect.) alle imprese (indennizzo per il licenziamento e poi Indennità di disoccupazione pagata dallo Stato ma per periodi di tempo molto più brevi di quelli di Cassa e mobilità).

Questa norma, quindi, giova sia alle imprese, che hanno un gran numero di lavoratori di cui si vorrebbero disfare che allo Stato che risparmierebbe, grazie ad essa, un mucchio di soldi di ammortizzatori sociali.

Il guaio è che essa non giova per niente ai lavoratori e non serve a farci uscire dalla crisi economica.

In aggiunta va ricordato che l’economia italiana, nel periodo in cui l’occupazione è stata più stabile, cioè dal 1970 al 1995, ha avuto una disoccupazione alta ma anche un alto tasso di incremento della produttività che dal 1980 al 1995 è cresciuto in media del 2,2% l’anno, mentre dal 1996 al 2007 la crescita media annua è diminuita allo 0,4%, meno di un quinto del periodo precedente.

E qui, secondo me, sta il nocciolo: se l’impresa non può licenziare facilmente il lavoratore è portata ad investire in impianti, macchinari, formazione, formule organizzative più efficienti, ecc. per far rendere al massimo il lavoro. Se, invece, l’impresa può mandare via quando vuole il lavoratore precario non ha interesse a fare gli stessi investimenti o ce l’ha in misura molto minore, tanto pensa di guadagnare grazie al minor costo del lavoro.

Intanto i concorrenti progrediscono e la mandano fuori mercato.

Non è un caso, quindi, che gli anni della precarizzazione del lavoro (dal 1995 in poi, ma soprattutto dal 2003 in poi) siano anche gli anni del crollo della produttività del lavoro e degli investimenti delle imprese. C’è chi dice, e io sono d’accordo, che la precarietà del lavoro ha portato alla precarietà dell’impresa italiana, alla sua bassa innovatività ed al declino complessivo della nostra economia.

Sono molto recenti i dati, davvero impressionanti, di una ricerca del 2011 del Professor Riccardo Gallo secondo cui il periodo di ammortamento medio dei beni strumentali delle imprese italiane è di 26 anni, mentre quello delle imprese europee (Francia, Germania ed altri paesi del nord Europa) è di 13 anni. Ciò significa che questi sono anche i periodi in cui le imprese italiane e tedesche rinnovano i loro beni strumentali, acquisendo nuove e più avanzate tecnologie. E questi ritardi si cumulano nel tempo, spingendo tante nostre imprese fuori mercato. Ma appena 8 anni prima, nel 2003, le imprese italiane erano all’incirca sulla linea delle altre, con un periodo di ammortamento medio dei loro beni strumentali di 16 anni. Guarda caso, questo avveniva prima della grande ondata di precarizzazione del lavoro dovuta alla c.d. Legge “Biagi/Maroni”, il Decreto Legislativo n° 276 del 2003. E’ solo un caso?

Insomma, in questo modo, una riforma che nasce per dare più certezze alle imprese, soprattutto ai mitici investitori esteri, rischia di tradursi nel suo contrario.

dall’ex Khoarakhanè Gianfranco Visconti

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