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DOPO LO SCIOPERO RIELLO. Tute, blazer e tailleur blu. Osservazioni e proposte

Dopo lo sciopero Riello di martedì 3 giugno.
Proposte e osservazioni

I lavoratori della Riello e delle altre industrie del territorio martedì avranno invaso piazze e giornali per rivendicare il diritto a non essere considerati un costo e, tantopiù, facilmente scaricabile con una delocalizzazione produttiva.

Le Istituzioni ed i parlamentari saranno in prima fila con fasce tricolori, blazer e tailleur blu per dare solidarietà dimentichi della loro responsabilità di politiche di svuotamento del ruolo del sindacato e della centralità del lavoro e del salario. Basterebbe buttare in faccia, alla loro ipocrisia, i dati della distribuzione del reddito che da anni schiaccia i salari a favore dei profitti.
Ora che finalmente, seppur drammaticamente, anche l’operaio, toccato in prima persona, si risveglia dal torpore illusorio del nuovo miracolo italiano la vertenza Riello può essere uno spartiacque a tutela di tutta l’industria locale.
Perché persa questa lotta non ce ne saranno più.

E sta qui, quindi, la necessità di essere tanti, solidali, arrabbiati e decisi al fianco e con gli operai, ben oltre lo sciopero di piazza.

Io resto dell’idea – come proposto in un precedente articolo – che la paventata occupazione della Riello da parte dei lavoratori debba essere solo il riconoscersi e il promuovere l’autogestione dell’Azienda e l’inizio per una proposta di Legge d’iniziativa popolare (nazionale) dell’automatica cessione – a titolo gratuito – al Comune dell’area industriale lasciata libera dall’impresa che delocalizza.

L’autogestione dimostrerebbe, alla città, all’imprenditore, ai lavoratori delle altre imprese, la centralità del lavoro e dei lavoratori nel benessere e nella prosperità di un’azienda e quindi il fondamentale e obbligatorio ruolo di coinvolgimento, gestionale e decisionale, nelle scelte da parte di tutta la filiera produttiva interna.

L’autogestione evidenzierebbe anche quello che si sta un poco perdendo nella conoscenza della composizione di imprese come la Riello e cioè che il sapere, la ricerca, la capacità progettuale e artigiana è negli occhi, nelle  braccia e delle menti di chi ogni giorno questo processo lo vive e lo attua, lo crea, da anni.

E non è il capitale, non è il signor Riello di turno. Ma è cesare, giulio, francesco, lucia, giovanna, barbara, è l’ufficio acquisti, quello contabile, quello vendita, quello produttivo il cuore dell’Impresa. E questo cuore ha vene e sangue fatte di persone.
Altrimenti si finisce per credere alla lettera del Presidente Ettore Riello sul sito del Gruppo quando dice: «La vita non ha qualità senza un obiettivo. Il mio obiettivo è la qualità della vita». Riello è un  Gruppo in grado di promuovere: «uno stato di benessere fisico, psichico e sociale». Che da 80 anni produce “reddito e senso”.

Ma non specifica per chi e a discapito di ch.

Esperienze importanti di autogestione sono mutuabili da realtà anche lombarde ed italiane. Forse è giunto il momento che si smetta di inseguire e assecondare, sperando di mitigarne la perniciosità, quella parte di società che ama la ricchezza e il privilegio e che si cominci a farle assaggiare l’asprezza dello scontro.

Sarà da monito anche per le altre imprese del territorio incamminate a precarietà e ingordigia. È ora che al fianco dei lavoratori si vada a prendersi (e far ripartire) i mezzi di produzione.

Vediamo quanti blazer e tailleur blu faranno scudo e sostegno.

LA LOTTA DI CLASSE? C’E’ STATA E L’HANNO STRAVINTA I CAPITALISTI

La lotta di classe? C’è stata e l’hanno stravinta i capitalisti.

In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili (“insoliti”, preferiscono dire gli economisti).  Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all’apogeo della Prima Repubblica, la quota del PIL, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12% Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti.  Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del “miracolo economico”. L’allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni ’90: i profitti mangiano il 29% della torta nel 1994, oltre il 31% nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7% nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34% del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell’anno, è rimasto in tasca poco più del 68% della ricchezza nazionale. Otto punti in meno, rispetto al 76% di vent’anni prima. Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l’8% del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent’anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all’anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po’ di qui, un po’ di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef. Dice Olivier Blanchard, economista al Mit, che i lavoratori hanno, di fatto, perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra. Sono i capitalisti dei paesi sviluppati che fanno profitti record. Il meccanismo, avvertono dal Fmi, è tutt’altro che esaurito e, probabilmente, continuerà ad allargare il divario fra profitti e salari in Occidente. La crescita dei profitti, sottolinea lo studio della Bri, “non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra”. Anzi “gli investimenti sono stati, negli ultimi anni, relativamente scarsi, rispetto ai profitti, in parecchi paesi”. In altre parole “l’aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa per un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche”. La lotta di classe, appunto. (se vuoi leggere anche il resto, continua qui)

VENERDI 6 GIU: CETI MEDI SENZA FUTURO? con Sergio Bologna

La libertà intellettuale e le analisi del prof Bologna sono molto utili, anche e soprattutto, in una realtà come quella del territorio di Lecco, capitale del lavoro e della “piena” occupazione, (ma qui arrogantemente le aziende chiudono o minacciano di farlo) dove il lavoro è violentato e maltrattato.
E’ quindi necessario e urgente non arrendersi e indicare con serietà percorsi e chiavi di lettura per evitare tutto ciò.

noi facciamo la nostra parte, invitandovi

VENERDI 6 GIUGNO ORE 21
A LECCO sala conferenza banca popolare di sondrio
via amendola ang corso martiri
dove il prof. SERGIO BOLOGNA
libero professionista, storico del movimento operaio
– consulente del lavoro –

presenta il suo ultimo libro:
CETI MEDI SENZA FUTURO?
scritti, appunti sul lavoro ed altro
ed. derive e approdi

La crisi del ceto medio è uno dei grandi temi della politica nei paesi occidentali. A lungo negato – soprattutto in Italia – e oscurato dalla grande visibilità e drammaticità del fenomeno dell’immigrazione, trova le sue radici nelle trasformazioni del lavoro e delle imprese.
È la tesi di fondo di questi scritti, diversa dalle interpretazioni correnti che tendono a spiegare tutto con il fenomeno della globalizzazione.
Le trasformazioni del modo di lavorare e di organizzare la giornata lavorativa hanno prodotto un forte cambiamento antropologico, non privo di ricadute, anche economiche, sui soggetti che ne sono coinvolti.
L’attenzione e l’analisi di Sergio Bologna si concentrano sul lavoro autonomo, sul lavoro precario ma soprattutto sul lavoro “di conoscenza”, su quei lavoratori più preparati e intellettualmente formati che vedono peggiorate le loro condizioni di vita e messe al macero le loro intelligenze. Per l’autore è qui che si annida il disagio più forte.
Eppure ci sono segnali di trasformazione: poco a poco questi lavoratori e una parte del ceto medio sembrano prendere coscienza e cominciano a organizzarsi in forme sindacali e di autotutela.

VALE LA PENA ESSERCI PER AVERE CHIAVI DI LETTURA CHE PERMETTANO DI APRIRE – O TENERE APERTE – LE PORTE DELLA NOSTRA MENTE.

PROSSIMAMENTE A LECCO: LA NOSTRA ROM..DA NOTTURNA di solidarietà

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STIAMO COSTRUENDO UNA SIMBOLICA INIZIATIVA CHE VUOLE TENERE AL CALDO, UN SEME DI CIVILTA’, INCLUSIONE E DENUNCIA PER GERMOGLIARE IN QUESTI TEMPI DI GELO E ARIDITA’.

SI PUO’ E SI DEVE NEL PICCOLO DEL NOSTRO QUOTIDIANO DENUNCIARE LA STUPIDITA’ E L’ARROGANZA DELLE RONDE PADANE DELL’INTOLLERANZA .

UNA RISATA LI SEPPELLIRA’ IN TUTTA LA LORO BORIA

ORGANIZZIAMO UNA ROM…DA DI SOLIDARIETA’ INSIEME  AGLI AMICI SINTI, ROM, KALE’ PER LE VIE DI LECCO

PER L’INCLUSIONE, LA CIVILTA’ ED I DIRITTI UMANI

TU CI STARESTI?  scrivici

campagna: UN POSTO X TE… CAR POOLING per la Provincia, sali anche tu?

PREMESSA

Ad ogni sterzar di gomma i soggetti Istituzionali e imprenditoriali del Territorio rilanciano e si lamentano per le infrastrutture carenti che non permettono la crescita, lo sviluppo e pure il benessere. Fermandosi alla litania giaculatoria.

 Qualche tempo addietro anche il signor Prefetto fece pubbliche constatazioni. Sulla viabilità provinciale riportava dati effettivamente veri, o almeno percepibili come tali: “Nell’ultimo decennio le auto sulle nostre strade sono triplicate”. Ancora una volta appunto, sia nella politica che nella società, nessuno ha rilanciato in maniera adeguata la discussione sulle soluzioni attuabili. Speranza, da parte nostra, che è risultata, evidentemente, per l’ennesima volta, mal riposta.

Sul cosiddetto “che fare?” con ragionamenti concreti e non solo e sempre in astratto siamo all’assurdo: Servono più strade anche se non ci sono soldi. Da anni, senza per questo voler essere presuntuosi, battiamo quasi da soli questo tasto di una forte e urgente necessità di discutere, collettivamente ed a più livelli, di mobilità e viabilità. Di trasporto e infrastrutture. L’ACI del compianto dott. Maurizio Corno ci aveva supportato, andando giustamente anche oltre il tema con ampio respiro. Non l’avevano fatto gli ambientalisti, tanto meno i partiti che pretendono di rappresentarli.

Poco o nulla sembrava raffigurare un Progetto, una progettualità. Anche in questi giorni, basta leggere la stampa, si ripetono le solite litanie.

Mancano infrastrutture, il traffico è ormai insopportabile.

L’aspetto assurdo, e soprattutto termometro imbarazzante della pochezza delle idee, è quello che vuol far credere che sia una rilevazione seria – che inequivocabilmente evidenzia cioè la necessità di infrastrutture e nuove strade e soprattutto sufficiente – quella di limitarsi a contare quante auto transitano su una determinata strada.Il problema è più complesso ma anche di facile soluzione innanzitutto spostando queste incombenze di monitoraggio dall’assessorato ai lavori Pubblici – come è stato fino a oggi – a quello dei Trasporti. E’ già un salto culturale non indifferente. Poi sarebbe più intelligente non solo e tanto sapere quante macchine fanno una determinata tratta ma quante di queste automobili viaggiano con una sola persona a bordo. Da qui si capirebbe che anche il car pooling (l’auto condivisa) può e deve essere una soluzione primaria. 

Vogliamo le strade nuove tipo la Lecco Bergamo? Bene, possiamo però dire che da quando se ne parla a quando finirà ci passano anche 2 decenni? E’ ragionevole dire (e chiedere) che cosa si fa nel frattempo? Stiamo come questa classe politica e imprenditoriale a piangerci addosso ed a parlare del sesso degli angeli o si prova a risolvere, ad attenuare almeno, concretamente, il problema? 

PROGETTO PEROVINCIALE

Noi ci riproviamo e rilanciamo con percorsi verso soluzioni che necessitano il supporto di tutti gli uomini e donne di buona volontà e spirito vivace. UN SOFTWARE provinciale per gestire in forma informatica e automatica la domanda e l’offerta di autocondivisa sul territorio.

Mutuando, come già richiesto all’Assessore ai Trasporti della Provincia ma per ora sordo al suggerimento, il programma adottato da inizio gennaio dalla pari Amministrazione Bolognese, consultabile su http://www.autocondivisa.bo.it/ cioè un semplice programma web che, previa registrazione, permette all’utente di mettere a disposizione, condividendone il tragitto abituale, o parte di esso, i propri posti in auto non occupati ed, in subordine, di poter usufruire di questi posti. Tali incroci e varie combinazioni (tragitti, orari, disponibilità, giorni) sono facilitati e elaborati automaticamente appunto dal software. (se vuoi leggere anche il resto, continua qui)

IL MENU A KILOMETRO ZERO… Rilanciamo la proposta

Anche quest’anno si rilancia e replica per un mese un bel richiamo turistico-gastronomico con i piatti della cucina europea proposti da alcuni ristornati del territorio.

Anche quest’anno ci permettiamo rilanciare una Proposta turistico-gastronomica per tutto l’anno.  Auspichiamo che questi stessi Ristoranti – e ovviamente non solo loro – sperimentino con le stesse abituali qualità della loro cucina i menu a “chilometro zero”.

Menu sostenuti anche dalle varie Amministrazioni locali e dall’Azienda turistica della Provincia.
Un’esperienza che può prendere piede e diventare un’importante occasione di richiamo anche, evidentemente, in termini turistico-promozionali.
Non crediamo che sia molto complicato. Anzi.

I piatti a “chilometro zer0” sono quelli cucinati fornendosi per gli acquisti prevalentemente (esclusivamente) dei prodotti del circondario o dei territori vicini proponendoli poi alla propria clientela, con adeguata sottolineatura. (la storia, la ricetta, il metodo di coltivazione, il produttore…)
Il resto lo fa, e lo deve fare, le capacità e l’inventiva del cuoco.

Magari recuperando anche ricette più o meno antiche.

Quanti buoni vini della Valle del Curone e di Montevecchia vediamo evidenziati nelle carte dei Vini dei nostri ristoranti?  E l’asparago rosa di Mezzago, l’ottimo olio d’oliva di Perledo? Il prosciutto crudo di Oggiono? I dolci di cioccolato di Lecco? I caviadini di Introbio? I formaggi di capra e pecora dei Piani Resinelli? Il farro antico o il mais biologico di Monte Marenzo?  Il pane cotto nel forno a legna di Colle Brianza? La Birra Cruda del comasco? La Meascia poi meriterebbe un capitolo a parte, ma chi la trova più o sa cos’è? Ed il miele bio della Valsassina e della Brianza? La patata di Campodolcino o le mele di Torre de Busi? Le castagne secche …? Riusciamo a degustare solo i taleggi, qualche porcino e sempre meno i missoltini. Un po’ poco o sbagliamo?

Ma ci immaginiamo cosa significherebbe riscoprire e far scoprire al turista (e non solo) anche alcuni piatti che più e meglio ci rappresentano: l’accoppiata: riso e luganega, l’Ugiada: minestra d’orzo ineguagliabile, il Manzo alla California, la Zuppa di ciliegie e marasche, la già citata Meascia che ormai si propone in solo qualche raro e raffinato pranzo casalingo…

E chissà quante ce ne dimentichiamo.

Insomma crediamo che sarebbe bello se provassimo a valorizzare il bello e il buono che abbiamo. Chi raccoglie l’invito?

a forza di essere vento