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Leuci: LO SCHIAFFO DEL SOLDATO

 La Lealtan futuro attualmente non disponibileuci è morta. Viva la Leuci.

Ieri sera a cena con mio marito e alcuni amici abbiamo conversato sull’ennesimo schiaffo preso dalla città.Se la mano del mercato è cieca, come ci insegnavano a scuola, ha, però, una mira pazzesca nel colpire sempre gli stessi.

Una carezza in un pugno cantava Celentano solo quando ero giovane io.

Ora che son diventata “vecchia” i fattori si son capovolti. Un pugno in una carezza.

La mobilità e la presunta assunzione di poco più di una manciata di prescelti in cambio della trasformazione dell’area da produttiva ad altro.

In cosa altro non si sa, ma certamente – essendo il proprietario della stessa a chiederlo – in qualcosa decisamente più redditizio. Redditizio per lui ed, in subordine, va tenuto a mente, per il Comune ed il suo Bilancio – come ci faceva notare il marito della mia cara amica Cassandra.

In mezzo i lavoratori, generali convinti di avere alle spalle un esercito: la cittadinanza ed il territorio, ed al fianco colonnelli e forze alleate: Provincia, Comune e sindacati.

Ma che non è vero, ma non lo sanno. Non lo sanno solo perché non vogliono girarsi indietro e, tantomeno, guardare ai lati. Come cavalli da corsa proseguono imperterriti verso il sol dell’avvenire. Che, come si sa, è stato un fallimento. Se non individuale certamente collettivo.

Quando si sentono e si leggono slogan tipo: “La Leuci non si tocca” a me, casalinga inacidita ma non smarrita, viene in mente la battuta in voga alla metà degli anni settanta atttribuita ad Agnelli. Quando il lavoratore gridava: “Giù le mani, il lavoro non si tocca” sembra che Agnelli, l’Avvocato, avesse risposto: “e chi lo tocca, mi fa anche schifo”.

La Leuci non si tocca! ma poi se si vanno a leggere le carte, segrete, “all’insaputa” di chi le ha pensate, scritte e condivise, si scopre che Pisati, il padrone, ha vinto su tutta la linea.

La Leuci S.p.a. conferma che la sua disponibilità alla vendita dell’immobile identificato come “magazzino materie prime” è condizionata al cambiamento di destinazione d’uso della restante parte dell’area;”

Si scopre che la Provincia è vaselina per accordi carbonari da presentare ai lavoratori a giochi fatti.

Si scopre che il Comune di Lecco, (l’Assessore Volontè e la Giunta Brivio) contraddicendo un pronunciamento ufficiale del Consiglio Comunale fa una inversione a U e si mette la casacca dell’imprenditore: Tutto non possiamo darti Pisati, ti va bene la parte più pregiata, la polpa e il contorno?

Si scopre che il Sindacato, che dovrebbe rappresentare i lavoratori e non i padroni, passa da frasi del tipo: giù le mani dalla Leuci, a, Va bene dai lasciaci almeno una fettina di area, 1/3, non servirà per sviluppare nel concreto il progetto della Cittadella ma fa nulla, fra poco è Carnevale, possiam mica star qui in eterno, devo portare il bimbo alla sfilata in maschera”, con in mezzo: “tutta l’area è e deve restare industriale” “siam pronti per l’esproprio”.

Di sto passo, dieci giorni ancora e si facevano assumere tutti come consulenti di Pisati.

I lavoratori, diceva mio marito ormai un poco brillo dopo l’ennesimo bicchiere di Brunello, sbagliano a ragionare misurando la forza delle buone idee, perché in politica vale la forza dei numeri. Così vanno le cose, così devono andare.

E nel frattempo che i veri decisori, su altri tavoli, tirino a sorte le sorti dell’Impero romano e la sua spartizione, la truppa dei lavoratori è accerchiata da questi figuri che roteano l’indice e stanno giocando allo schiaffo del soldato.

Carta Vetrata

ps: QUI I VARI POST, ANCHE VECCHI DI ANNI, DOVE come esserevento PARLAVAMO DI LEUCI

 

IL DOMIN(i)O flessibile

Il dominio flessibile, che nella fabbrica, nei supermercati, nelle realtà produttive in genere, monta come un fiume a volte carsico  a volte più evidente – basta assistere alle riunioni, alle convention, ai workshop ect. –  è quello scambio simbolico e ineguale tra disponibilità ad accogliere in tempo reale le richieste variabili dell’azienda e una inclusione rischiosa, temporanea e comunque incerta, nei suoi piani produttivi, e assume sempre più una funzione dominante e paradigmatica.
Credo che, questo, sia un elemento che ogni lavoratore debba tenere in considerazione e analizzare per porvi argine, difesa e soluzione.

Muovendo dalle forme più fluide del lavoro, infatti, ci accorgiamo che i dispositivi ed i miti della flessibilità sono di casa come pratica quotidiana.

Ma anche i traumi, le ansie, le angosce e le paure che i processi di individualizzazione esasperata, di precarizzazione generalizzata e di insicurezza strutturale portano con sé. (Non parlo solo o prioritariamente della già famosa Legge 30 o della Fornero, che comunque gli esaspera). Nonché le dinamiche di quella “zona grigia”  in cui i tentativi di sopravvivere ai dispositivi totalizzanti frantumano la forza lavoro in un pulviscolo di monadi solitarie protette da una pellicola di indifferenza morale e nondimeno afflitte da un’endemica sofferenza identitaria.
Nel dominio flessibile messo in campo ormai diffusamente dal mondo produttivo, sopravvivere è più che mai “questione comune” orientata ad istituire il diritto universale, per troppi negato, alla piena cittadinanza. E questo avviene fin dall’inizio.
Frasi tipo: “Benvenuta/o in quest’azienda. Un’azienda che ti chiede tanto ma ti dà anche tanto. Dipende da te”, o ancora: “Qui, se vuoi, puoi fare tanta strada, puoi fare carriera, puoi passare in fretta da commesso a qualcosa di molto più importante. Dipende solo da te” “L’azienda sa compensare chi le è fedele chi comprende e si adopera per far marciare i suoi progetti chi si dimostra all’altezza della situazione”. Ed è qui che emerge – e si codifica – lo scambio simbolico tra disponibilità ed inclusione.
Qui si palesa nella nuda essenzialità il dispositivo portante su cui s’imperniano il lavoro e il dominio flessibile: appunto lo scambio simbolico tra disponibilità e inclusione, tra libertà personale e sicurezza. Dove per disponibilità si intende la propensione del lavoratore a identificarsi temporaneamente ma totalmente con l’azienda, ad accogliere in tempo reale le sue richieste variabili, al di qua di ogni diritto e al di là di ogni altro impegno; e per inclusione una presenza instabile e temporanea nei piani dell’azienda connessa alla capacità di “dimostrare di propria iniziativa, di essere migliore di altri, di saper portare più numeri e profitti all’azienda” e di meritare perciò di mantenere il ruolo (il posto) di lavoro.
Ma questo è quello che in parte, oggi, non cogliamo appieno ne noi ne (la maggior parte ) i sindacati. E questo l’azienda lo sa.

E’ una valutazione, un’opinione non un (pre)giudizio ma chi accetta e si annulla in questo scambio viene a trovarsi, di fronte all’azienda, in una posizione estremamente vulnerabile, esasperatamente singolarizzata e del tutto spoglia di diritti collettivi e di concrete sicurezze personali. Nei riguardi degli altri lavoratori sarà invece nella posizione di un avversario interessato esclusivamente a ricercare maggiori privilegi e ad accrescere, per quanto possa e ci riesce, il proprio ruolo di potere.Corridoi degli uffici, scrivanie e casse di supermercati, reparti e catene di produzione infatti, diventano ogni giorno di più “palcoscenico di una competizione furiosa, all’ultimo sangue, tra individui in lotta per farsi notare dai capi e ottenere la loro approvazione” . E anche questo l’azienda lo sa.

E sa che si tratta ovviamente di uno scambio ineguale, come del resto sempre avviene negli scambi tra capitale e lavoro, ma qui il “capitale” tende a mangiarsi, per così dire, oltre al lavoro anche il lavoratore. E lo fa anche (a volte) con elargizioni ad personam.
Così come il cliente che cedendo all’incanto della merce riempie il suo carrello d’effimere illusioni, il lavoratore che insegue il miraggio dell’inclusione svuota la sua esistenza di ogni altra ricchezza relazionale. Prigioniero dello scambio che ha sottoscritto, egli potrà sopravvivere solo in competizione con tutti gli altri, (budget, report settimanali, lotta tra agenzie, tra filiali, concorrenza e spionaggio e quant’altro) senza poter mai stringere una qualsivoglia alleanza solidale. E’ il trionfo della solitudine e dei “motivi personali” accompagnati dalle più indicibili pratiche che sempre, ad essi, nella storia, hanno fatto appello per legittimarsi.
Lo ricorda anche Primo Levi “I boia erano degli uomini comuni che hanno accettato il ruolo di aguzzini ciascuno per un motivo personale”. Per accrescere le proprie probabilità di sopravvivenza. E qui prendono piede le forme trasversali del dominio. Perché qualunque sia la forma contrattuale, ai lavoratori viene chiesto di adattarsi a forme supplementari di flessibilità che interessano il tempo, lo spazio e le mansioni. La flessibilità trasversale non è solo aggiuntiva. Essa infatti moltiplica, per l’azienda, le opportunità di rispondere in tempo reale alle richieste del mercato.
I lavoratori, al contrario, in seguito ad esse vedono accrescersi i margini d’incertezza del loro orizzonte fino a perdere la possibilità stessa di programmare, anche a breve termine, il proprio futuro. In questo incrocio distruttivo tutto si fa letteralmente precario nel doppio senso della parola: che può essere ottenuto o scongiurato a mezzo di preghiere; che nessuna preghiera potrà mai acquisire o scongiurare definitivamente qualcosa. Ed è vero, sebbene non sembra per qualcuno, ognuno di noi, anche gli “insospettabili”, ha un capo a cui rispondere a cui rendere conto, da cui ottenere approvazione.

Ad oggi chi non rispetta “la filosofia aziendale”, chi non capisce, o non vuole capire, che tali richieste nascondono la “semplice” prova di appartenenza, la dimostrazione della condivisione dell’ethos di gruppo, dello spirito di corpo, la concreta possibilità di dire ad alta voce: “l’azienda sei anche tu” e  prova ad andare contro la richiesta dell’azienda, non ottiene il rispetto dei suoi diritti ma una pressione ancora maggiore. Sei un numero, ragazzo. È’ il mercato, ragazzo.

DOVE VA LA COSA GIUSTA?

Forse conviene fermarsi un attimo e parlare di noi, noi che è un poco di più, molto di più, di esserevento.it, ma ha lo stesso dna, gli stessi occhi, lo stesso sguardo, la stessa direzione forse, però, sembra, non gli stessi modi per arrivarci. Anche in rete qualche sussulto sta già emergendo, qualche domanda si fa avanti.

E noi è proprio a queste domande, anche nostre, che vogliamo dare cittadinanza, per elaborare risposte. Dove sta andando “Fa la Cosa Giusta”? Nello scorso fine settimana, dal 15 al 27 marzo, si è svolta, a Milano, infatti, la decima edizione di questa Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Ormai ci vanno tutti. A visitarla. E quasi tutti a vendere i loro prodotti. E’ cresciuta enormemente negli anni scorso arrivando, lo scorso anno, ad oltre 67.000 visitatori, più di 700 giornalisti accreditati e altrettanti 700 espositori.
Si direbbe che l’Economia Solidale, l’economia altra, abbia vinto.

Ha vinto: l’attenzione collettiva lo dice, i numeri lo dimostrano, gli incassi lo certificano. Sulla quantità è una sfida, una vittoria, raggiunta per ko sullo scetticismo. E la qualità? Con queste quantità, impensabili solo 5-6 anni fa, la qualità, le attenzioni, le scelte possono essere ancora dello stesso livello? L’unica economia etica, solidale, possibile è un’economia che fa delle scelte e si dà delle priorità, giusto? Ed allora osservando, anche con poca attenzione, gli sponsor, i produttori che utilizzano la Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, per promuovere il loro brand, i loro affari, i loro fatturati, i loro dividendi, le loro quote di mercato, qualcosa sembra non fare somma.

Perché si sa, oggi, lo dimostra appunto il boom di questi anni della Fiera Fa la Cosa Giusta, la fascia di popolazione che crede al biologico, allo sviluppo ecosostenibile, al naturale, all’equosolidale e via dicendo, è sempre più ampia e quindi le imprese ci si buttano a pesce. O direttamente andando alla fonte, come in questo caso, o producendo linee “etiche”, come i fondi responsabili delle banche. Perché alla fine il consumatore deve sempre comunque fare i conti con i soldi che ha in tasca per poter arrivare a fine mese. E le economie di scala, i capitali a disposizione, le posizione di privilegio, il marketing ruffiano, caspita ti fanno prima spalancar le porte e poi il portafogli.

Alcuni marchi, alcuni nomi, di economia solidale, locale e di piccolo hanno ben poco, quasi nulla. Le multinazionali che qui negli anni hanno veicolato i propri nomi, quotate alle Borse della finanza, Philips, Peugeot e Lindt e ancor oggi Novamont di un fondo private equity, di Ubs e banca Intesa, sacchetti che forse difendono l’ambiente prodotti da una banca che che sta facendo le grandi opere autostradali distruttive nella pianura padana. Per non parlare poi di De Agostini. Che è la padrona di Lottomatica. O di altre che di prodotti a KmO e produzione artigianale ormai non hanno più nulla, se mai l’hanno avuta. Poi, oltre a queste ci sono quelle aziende, quegli sponsor che del marketing etico fanno una bella strategia di comunicazione.

Su tutte La Coop con i suoi supermercati e centrali di acquisto oligopoliste, modelli mica tanto credibili in un percorso di sostenibilità. Sorge perciò spontanea una domanda: quali sono i criteri con cui gli organizzatori selezionano le domande di sponsorizzazione e dei produttori? Visto che mediamente ogni stand non costa pochino. 1500/2000 euro per 16mq? Ci si chiede se costi così cara l’organizzazione di una Fiera da questi numeri tanto da non poter selezionare più di tanto gli sponsor, e conseguentemente se ci si è domandati se bisogna crescere così tanto, in questo modo, se non c’è alternativa, se la decrescita non è applicabile.

E se, invece, la selezione c’è stata, si ritorna alla domanda precedente. Quali sono i criteri? Non vanno rivisti? Provocatoriamente, o forse no, alcuni attivisti dei Gas, si chiedono se la Nestlè chiedesse di partecipare con i suoi prodotti biologici come il latte per lattanti bio o i suoi cioccolatini e caffè fairtrade come sarebbe vista la cosa? Forse non sarebbe il caso di ripensare ad un nuovo modello di sviluppo di queste grandi manifestazioni che in questo modo rischiano di annacquare lo spirito iniziale per cui si pensava fossero sorte?

Dove sta andando “Fa la cosa giusta”?

M5S Grillo e Leuci: è disinteresse, non ingenuità

Avevo letto la lettera dei lavoratori della Leuci delusi e arrabbiati contro i Grillini per non averli lasciati parlare durante l’evento enorme di mercoledì sera, malgrado la richiesta di un piccolo spazio.

Ho letto ora (qui) la lettera di “scuse” da parte del Meet up grillino di Lecco.

Posso permettermi di dire che la toppa è peggiore del buco? Non sindacalizzo sulla veridicità delle scuse. Se appunto vere e sentite o solo un’altra buona azione di marketing preelettorale. Posso anche propendere, senza dubbio, per la prima.

Ma l’abbiamo letta bene la  lettera? La toppa (e la toppata) è la chiusa. I grillini scrivono infatti:
“Crediamo fermamente che si debba dar voce alle realtà locali e a maggior ragione ai lavoratori in difficoltà. Alle nostre scuse uniamo la volontà ferma di incontrarvi per discutere una linea d’appoggio concordata, con la quale delineare degli incontri per avere maggiori informazioni sulla situazione dei lavoratori della Leuci. Contattateci e di nuovo perdonate questa nostra ingenuità. A presto”.

Che vuol dire una cosa soprattutto e gravissima, non che sono ingenui e quindi perdonabili giovani militanti… ma che non sanno un cazzo del territorio, sono sulla Rete e i drammi dei lavoratori gli scivolano alle spalle o davanti ai loro occhi chiusi.

La questione Leuci, non è un granello di sabbia nella crisi mondiale del lavoro è l’emblema, da almeno 4 anni, 4 anni!!!!, della crisi, della precarietà, del nostro territorio, del lavoro dentro casa.

E il moviment M5S Grillo, prima delle elezioni, in questi mesi, anni (ormai il movimento dei grillini, bene o male, ha diversi anni anche qui) dov’era?

Deve delineare degli incontri per avere maggiori informazioni sulla situazione dei lavoratori della Leuci? Ma dove sono stati fino a ora, su Marte? Nel cyberspazio di internet?
Caspita questi sono il nuovo che avanza.
Non è ingenuità la loro è disinteresse.

DOTECOMUNE, Promessi Sposi e sfruttamento

Eppure Lecco in tema di matrimoni dovrebbe avere un’esperienza robusta.

Renzo e Lucia sono le fondamenta della nostra storia. Invece il Comune, a maggioranza di centro-sinistra, si comporta come un Don Rodrigo carogna. Vuole sposare a forza, prendendola per fame e potere, un’ingenua Lucia. Una poverella non più contadina che oggi deve portare in Dote l’esser  giovane e disoccupata o cassaintegrata. Una di poche pretese e che, soprattutto, non si monterà la testa.

Il Comune Don Rodrigo in realtà non vuole nemmeno sposarla, gli serve una serva.

Dopo un anno, di Tirocinio Formazione all’Archivio/Protocollo se ne stancherà e la caccerà. La farà tornare da mamma Agnese, pronto così a cercare carne ancor più fresca.Oggi non c’è nessun Padre Cristoforo a venirle in aiuto, e nessun Innominato che si redimerà l’anima.

Quanto è accettabile che Lucie del XXI secolo sbattano ancora contro i Don Rodrigo che per i propri servigi, per il proprio interesse a tappare buchi di organico, le paghi 3,48 euro, l’ora? Col rischio che siano anche lorde?

Questo non è un romanzo storico ma è una tragedia moderna.

Oggi il Comune di Lecco si vanta e pubblicizza la DoteComune, la ricerca di una Lucia per occupare un posto, con Borsa lavoro, per 12 mesi, a 20 ore settimanali obbligatorie di lavoro, riconoscendo, alla Lucia di turno, 300 euro mensili.

E oltre il danno anche la beffa: Se Lucia è in Cassa integrazione e i suoi redditi superano, con questi del Comune, 7000 euro annui (essendo la Dote Comune redditi assimilabili a lavoro dipendente) ci paga pure le trattenute. Sono cioè 300 euro mensili lordi, 3,48 euro all’ora, lorde. Non bastasse, si ammala, deve recuperare le ore che ha perso (art.11 del Regolamento_funzionamento).

Perché al posto di chiamarla DoteComune non la si chiama con il suo nome: Sfruttamento?

(Perchè se si prende come scusa che non ci son altri soldi non la si paga dignitosamente, almeno il doppio e la si fa lavorare la metà?)

La cosa più triste è che lo fa un Comune che si spaccia, immotivatamente, di Centrosinistra, dove le Associazioni amiche le copre di soldi e poi sfrutta chi non può sputare su elemosine così ipocrite.

LA CODA PER UN LOGO E LA LIBERTA’

La cronaca di questo fine settimana narra con enfasi di code inquietanti fuori da negozi per uno speciale arrivo. Il nuovissimo telefonino Iphone 5. Adunate oceaniche convocate dai tam tam mediatici, che ricordano quelle famigerate di tempi andati. Oppure ricordano le code per il pane di sovietica memoria. La coda è sempre coda e il fatto di mettersi in fila per cellulari griffati anziché per beni primari ci dovrebbe dire qualcosa sulla dignità di un popolo. E’ questa la libertà per cui 70anni fa si è combattuto? Oggi assistiamo allo spettacolo desolante di questa libertà. Coda chiama coda: 300 telefonini e e 600 persone in coda e altre in coda per vedere. “Signora perché è ancora in coda se è la 388esima?” “Per vedere”. Allucinante. Nemmeno Beckett ci sarebbe arrivato. C’è qualcosa di contorto, di perverso. Come cittadini democratici, come giornalisti, perché non si sente il dovere di disertare queste adunate oceaniche e di disvelare il fascismo in ogni sua subdola forma? 800-1000 euro (più dello stipendio di un opraio, il doppio di una pensione minima) per un telefonino di cui, per altro,  si userà solo il 5-10% della sua capacità e potenzialità, con un sovrapprezzo per il logo – e non per le sue funzioni – da bevitori di favole….

Come si fa a mettere insieme tutta questa gggente? Quelli delle cianfrusaglie e quelli del pane? Quelli delle code che comprano “sovrapprezzo” un prodotto dello sfruttamento made in China in centro (e che cambia ogni anno e e mezzo) e quelli che vogliono cacciare i venditori di colore sul lungolago con un paio di scarpe che devono durare 20 anni?