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BODEGA SALVATO DA RUSCONI. ce li meritiamo entrambi

Credo che bisogna pubblicamente applaudire e complimentarsi – e io lo faccio – con l’On. Codurelli per il voto contrario al mantenimento dell’incarico parlamentare dell’ex sindaco Bodega. Soprattutto per le motivazioni che ha esplicitato. “Voto contro per rispettare la Legge”. Evviva.
Questo non può, conseguentemente, non far evidenziare il comportamento deplorevole che ha tenuto l’on Rusconi che invece – a dispetto della Legge – ha votato a favore. L’on.Rusconi ha motivato il Suo voto con argomentazioni che rasentano l’ipocrisia e soprattutto l’evidenza che per lui la Legge è come un elastico. C’è chi “può” rispettarla e c’è chi “deve” rispettarla. I primi sono i politici – coloro che le fanno – gli altri sono tutti gli altri. Noi. Già l’anomalia che davanti a una palese violazione di Legge i Parlamentari si riuniscano per decidere se tenerne conto o no è un altro aspetto della distorsione e della volgarità di questa classe politica.
Risulta, infatti, anomalo il comportamento serio dell’On. Codurelli, non quello clientelare e furbo e privo di eticità dell’on. Rusconi. Ognuno, infatti, sull’esempio dell’on. Rusconi perché non potrà, davanti ad un giudice, avvalersi anche lui di questi privilegi, di questa lettura paciosa e volgare delle regole?
Non meno colpa ha in questa vicenda l’on. Bodega che solo forte di questue ha potuto mantenere un ruolo che non poteva essere suo. Per Legge. Quali impedimenti gli vietavano di dimettersi un mese prima dal Suo incarico di Sindaco essendo a conoscenza della Legge sull’ineleggibilità che determina un preciso termine di tempo per presentare le dimissioni? Se entrambi, Bodega e Rusconi, avessero un briciolo di etica, di morale, di semplice serietà e rispetto dovrebbero dimettersi. Ma non lo faranno. E l’aspetto grave è che nessuno o ben pochi elettori, cittadini, glielo chiederanno.
Perché forse – a pensarci – hanno ragione loro i Bodega e i Rusconi (che si stimano pure a vicenda) che hanno la stessa prudenza, la stessa furbizia, la stessa gentile ipocrisia di chi del potere è artefice solo in quanto disponibile a servirlo ed a servirsi.
Siamo la patria dei furbi, delle pacche sulle spalle, dell’arroganza del potere, del tornaconto personale, della carenza di dignità.

I Bodega e i Rusconi noi ce li meritiamo.

CITTADINO O CONSUMATORE?

I quotidiani economici stanno minacciando il primato di quelli sportivi. Le vicende azionarie dei grandi gruppi industriali sono sempre in prima pagina. E le idee? E i destini degli uomini, dei paesaggi, dello spirito pubblico?

 

Un tempo il ridurre ogni discorso sul conflitto sociale alla sua rappresentazione economica si chiamava “economicismo”: ed era considerato un brutto vizio. Mi permetto quindi di condividere con voi un’analisi, provando a vedere se le chiavi del ben-essere hanno trovato la giusta serratura o bisogna ancora cercare. Sulla “lenzuolata” di liberalizzazioni del Ministro Bersani abbiamo sentito solo applausi. Alcuni condivisibili e auspicabili. Ma c’è un… ma! Ed è l’ideologia che viene veicolata. Al centro stanno i consumatori: come da manuale.
In un sistema economico a concorrenza perfetta il consumatore è sovrano. Il problema è che la concorrenza perfetta è un modello ideale impossibile da realizzare. Le forme di mercato reali non sono di concorrenza perfetta. Anzi domina l’oligopolio fatto da poche, grandi imprese, e per il resto la forma più diffusa è la concorrenza monopolistica.
Nell’oligopolio e nella concorrenza monopolistica le imprese fanno il prezzo, imponendo in qualche modo forme di rendita parassitaria, in cui la sovranità del consumatore sparisce o si attenua di molto.
L’esempio più recente in Italia sono i costi di ricarica delle schede telefoniche: aboliti per legge, sono stati reintrodotti dalle compagnie in altre forme.

Liberalizzare ma con cautela
Non tutti i settori sono adatti alla liberalizzazione. Non per tutti i settori le liberalizzazioni si traducono in sovranità del consumatore. Come nel caso delle liberalizzazioni già in atto (del decreto Bersani ora legge) dei servizi pubblici locali, che ci trasformano, contro l’art. 43 della Costituzione, da cittadini comproprietari di un bene comune in semplici clienti.

Veicolare questa ideologia e pratica del cittadino-consumatore, che identifica con uno slittamento semantico il cittadino con il consumatore, non è molto distante dalla vecchia idea thatcheriana per cui la società è il mercato, e niente esiste al di fuori del mercato.
In barba a tutta quella parte di teoria economica, interna all’accademia, che scientificamente onesta sostiene il mercato, cogliendone però i limiti e invocandone, laddove il mercato non può arrivare come soggetto regolatore o come soggetto sostitutivo, lo Stato o il pubblico. Un nome per tutti, non certo un rivoluzionario, il premio Nobel J.E.Stiglitz.
Ma c’è un altro aspetto che l’ideologia del consumatore sovrano nasconde: ossia quello che avviene nei rapporti di produzione, ovvero dal lato del cittadino-lavoratore.
A cosa serve guadagnare sull’acquisto dei beni e dei servizi a causa di riduzioni di prezzi per effetto di una maggiore concorrenza, se poi quel potere acquisito è ampiamente decurtato dai salari e dagli stipendi? Perché ciò che tutti gli indicatori economici ci dicono è proprio questo: la quota di salario al lavoro dipendente, in tutte le sue forme, da anni in Italia, come negli Usa, è fortemente ridimensionata a fronte della quota percentuale che va ai profitti e alle rendite.

Al servizio del mercato
A chi come noi si occupa di consumo critico, non dovrebbe mai passare per la testa l’idea che il ruolo di consumatore sia pienamente realizzato dal mercato così com’è. Che la società sia mercato. Il consumo critico, partendo dal bene o dal servizio finale, risale la filiera distributiva e produttiva per accorgersi che dall’atto del consumo deriva l’atto del produrre, e non viceversa come vorrebbero imporre gli oligopoli. I due poli, consumo e produzione, sono le facce di una stessa medaglia. Certi rapporti di produzione determinano sia l’atto del produrre che quello del consumare. Quel rapporto di potere lega il produrre e il consumare alla ripartizione dei redditi tra salari, rendite e profitti.
Questo mi preoccupa. L’unilateralità e la banalità di una visione, che è pericolosa quanto più sembra la scoperta entusiasmante di neofiti, liberatisi da passate catene, diventati bianchi cantori di un mercato perfetto che non c’è. Novelli eunuchi per il… regno. Quello del mercato. La storia della torta privata che se cresce lascia briciole agli astanti a ma non è mai piaciuta.

X Tra Terra e Cielo giugno 2007

GIOCO DEL LOTTO: TASSA SULLA POVERTA’

Il mese di maggio è, a livello fiscale, il mese principe della compilazione e presentazione delle dichiarazioni dei redditi. Anche per questo, vorrei condividere con voi la considerazione secondo cui dovrebbe passare meno inosservata la tassa sulla povertà che i governi – di tutti i colori – appioppano al contribuente, solo in parte consapevole e comunque non per questo legittima. Stiamo parlando della tassa sui giochi pubblici e in particolare del gioco del Lotto.

 

Quintino Sella – o qualche altro avo della Patria – chiamava il Lotto che fu istituzionalizzato proprio con la nascita del Regno d’Italia: la tassa sugli “allocchi”. E davvero nell’Ottocento, ai tempi in cui non esisteva ancora l’imposta sui redditi, il Lotto era una delle principali entrate dello Stato, con cui si finanziavano guerre, imprese coloniali e innumerevoli altre glorie patrie. Per vari motivi, oggi, trarre il grosso del gettito fiscale dai redditi (Unico, 730 ) o dai consumi (Iva) appare difficilmente realizzabile.
Anche in queste settimane, come in tutte le altre, questa imposta sta mietendo vittime o potenziali tali. Non si può nascondere infatti che la caccia al ritardo cronico di alcuni numeri stia creando, in maniera più o meno carsica, difficoltà economiche ai giocatori.

Tutto questo è legittimo? Tutto questo è inevitabile?

Ci sono diversi numeri che periodicamente ritardano per decine e decine – anche centinaia – di estrazioni e lo scommettitore li rincorre. Di fronte a tale situazione dovremmo chiederci se sia lecito che uno Stato porti sul lastrico – incentivando il gioco d’azzardo – molte famiglie. Non potendo saltare delle estrazioni, e poiché l’inseguimento del ritardo comporta un “automatico” continuo rialzo della puntata – si vince 11 volte la somma spesa – per poter compensare quelle precedentemente giocate che non hanno portato risultati, i giocatori investono spesso interi stipendi. Inoltre le giocate/estrazioni si effettuano 3 volte la settimana non una volta al mese e quindi questa continua necessità di rialzo del denaro puntato comporta per molti uno scompenso finanziario. Giocatori che si indebitano, che chiedono prestiti alle banche od alle finanziarie – tenete d’occhio i dati e le pubblicità del cosiddetto prestito al consumo (ne parleremo) – ormai non sono più casi isolati.
 

 

Il giocatore “tipo”

Se aggiungiamo che i maggiori e più assidui giocatori sono componenti dei ceti a basso reddito, è o non è il Gioco del Lotto una tassa sulla povertà? Si può dire che si è passati dalle tasse imposte all’autotassazione. Alcune cifre con numeri ufficiali – da non giocare – sono utili per comprendere ancora maggiormente la portata del problema: 35,2 miliardi di euro sono la somma spesa per il 2006, con un incremento del 23,7% sull’anno precedente. L’Erario ha avuto un introito di 6,7 miliardi nel 2006, con un incremento di oltre il 9% sul 2005 dai giochi Pubblici.

Lo Stato conta di poter fidare su una folla di volontari, che spontaneamente trasferiscano i loro tesori miserandi nel tesoro dello Stato e per questo Lotto, Superenalotti e lotterie, mai del tutto dismesse da governi rapaci e avidi di ogni singola briciola, ritornano al centro dell’attenzione e della propaganda, e si propongono come fonte primaria di gettito, su cui fondare interi programmi, opere, investimenti…. Resto convinto che la televisione e la stampa non dovrebbero pubblicizzare, bensì intraprendere campagne disincentivanti questo genere di “salasso”.

lettera aperta a tutti noi e a BE: IL MALE MINORE

zanotelliStasera ho acceso il computer, fatto un giro in internet, trovato la lettera di Padre Zanotelli.

Quella che, tra mille battaglie e mille impegni, ha dovuto scrivere al C.d.A di Banca Etica per esprimere tutto il suo disagio, tutta la sua presa di distanza dal comportamento di quest’ultima, rispetto alla riconfermata presenza di BPM – Banca Popolare di Milano – tra le banche armate. 

Le due Banche, come si sa, sono socie, e BE in questi mesi, non ha detto nulla, fatto nulla, se non promettere che in futuro BPM avrebbe reso trasparente il bilancio, coerente la propria condotta. 
Ma il troppo è troppo. E sebbene sia triste si sia lasciato, ancora una volta, che toccasse a Zanotelli dirlo, che si sia qui a parlarne solo perché lo ha scritto lui, e non invece per un sussulto di dignità, pretesa di verità e chiarezza venuta dal basso, è bene lo stesso unirsi a quel grido e ripetere che BE deve fare delle scelte. Inderogabili e imprescindibili, immediate e trasparenti. 
Perché non è più possibile vedere i soci e i partner di BE presenti nella Lista delle banche che sostengono il mercato di morte degli armamenti.

E queste scelte in primis sono: 

1) La non-accettazione di operazioni legate al commercio di armi. 

2) Il non-sostegno e utilizzo diretto e indiretto di paradisi fiscali. 

3) E, se proprio non è possibile altro, per lo meno, la commercializzazione nella gamma di proposte, da parte delle banche partner, dei soli fondi etici. 

Punti vincolanti, non negoziabili, questi. 

 

Oggi, infatti, assistiamo, delusi e quasi arresi, a percorsi che temporeggiano, giustificano alleanze con una banca armata. Ed in tutti questi anni, fatti a volte, forse meno del dovuto, ma fatti, di pressioni, di campagne e di insistenze, BE ha fatto finta di non capire. Di non sentire.

Ma ora basta. Se non c’è differenza tra BPM e BE, non c’è nemmeno ragione per continuare a tenere-mettere i soldi in BE. Se si comportano allo stesso modo BPM e BE, non si vede perché si dovrebbe far finta di continuare a pensare che si stia scegliendo qualcosa di diverso, differente, mettendoli in BE. Anzi, una scelta si può fare. Si può scegliere di togliere i soldi da BE. Pubblicamente. 

Se tutte le banche fanno affari sporchi, se questa è la logica ineluttabile (non è questo che sta dicendo BE con il suo comportamento?) è meglio andare con chi non fa finta di farli puliti. Almeno uno sa a chi s’accompagna. Si tolgono i soldi da BE perchè tra l’imitatore e l’originale si preferisce l’originale E a denti stretti, nell’amarezza si arriva a dire: “Good Bye BE”.

E fa nulla, anzi è utile che si apra la domanda che segue. 

“Se si tolgono i soldi da BE dove si mettono?”. 

In un mondo ideale non c’è accumulo, il denaro ha solo un valore di scambio non ha un valore in sé. Tutti hanno e solo quel che serve per vivere e non c’è questione da gestire. Ma questo non è un mondo ideale.

E dove mettere i soldi oggi potrebbe essere un gran bel punto da tornare a discutere assieme, su queste pagine magari, all’aperto e pubblico dominio. Dove si possono mettere i nostri denari? Va bene qualsiasi risposta. Vanno bene tutte. Tutte tranne una. Quella che vorrebbe Banca Etica come il male minore. Perché non è una risposta. Anzi. 

Il male minore è il peggiore dei mali. Perchè toglie la speranza, la prospettiva, ammazza il futuro. 
E’ il peggio del peggio. Nell’Apocalisse è scritto che i rigettati saranno i tiepidi, quelli che non sono stati né freddi né caldi. 

Anzi, forse proprio questa è la domanda a cui BE dovrebbe rispondere.

Che sia lei a dirci dove metterli ‘sti soldi, perchè è lei che ci ha fatto sognare, sperare, impegnare e adesso ha il dovere di dirci dove metterli. Dove metterli questi denari visto che da lei non si può, appunto perchè lei è il male minore e il male minore è il peggio che c’è. 
 
In attesa di risposta, 

cordialmente, 
Paolo Trezzi e Mariacarla Castagna – Centro Khorakhané Lecco 

sVISTA SULLA STAZIONE DI LECCO

Ogni giorno è un urgenza, quando piove diventa un’emergenza eppure in entrambi i casi l’Assessore ai Trasporti di Lecco Stefano Chirico non avverte nemmeno la decenza di scostare la tenda della finestra del suo ufficio di Palazzo Bovara e guardar giù per prenderne coscienza.

Basterebbe questo, infatti, per comprendere che solo la passività, l’ignavia è male peggiore. E per un Amministratore pubblico una vergogna senza appello.

Eppure basterebbe poco per vedere come i pullman del servizio pubblico arrancano e accumulano ritardo e pericoli nella sola Piazza della Stazione per capire che non si può attendere anni – con il rifacimento della Stazione – per sperare di risolvere i disagi perenni e inammissibili di cittadini e utenti. Basterebbe affacciarsi e agire più che fare opuscoli con decaloghi insieme all’Assessore all’Ambiente e all’Agenda21 Virginia Tentori. Regolamentare/sospendere l’ingresso in Stazione, almeno negli orari dei pendolari, alle auto private, pensare, per le auto, almeno un senso unico per il tratto Via Marco D’Oggiono, Stazione e primo pezzo Corso Matteotti, implementare una fermata bus scolastici davanti a Via Porta servendosi (eventualmente) dell’attuale parcheggio farmacia, incentivare e promuovere, seriamente, forme di uso collettivo dell’automobile (car pooling-car sharing), anche in coordinamento con altri Enti (Provincia, Ospedale, Unione Industriali, Comunità Montane, Apt ) potrebbero essere soluzioni da sperimentare. Se ogni mattina, infatti, in Stazione i bus non riescono ad entrare, girare e uscire, perché le auto private entrano e addirittura sostano indisturbate in ogni dove della Piazza, e questo comporta ritardi del servizio pubblico, rischi evidenti e numerosi di investire pendolari e studenti, il menefreghismo istituzionale è la dimostrazione altrettanto evidente di uno stato di abbandono che dovrebbe essere umiliante per chi si è assunto l’incarico di amministrare il bene pubblico. Se l’Assessore ed il Sindaco, almeno in quegli aspetti elementari, non sono in grado di gestire e trovare soluzioni per la mobilità urbana – anche diverse da quelle qui proposte ovviamente – il traffico evidentemente dovrebbero dirigerlo più che governarlo.

LA CRISI DEI PICCOLI NEGOZI DI PROSSIMITA’

 Cara Provincia,

l’evidenza che, con merito, state dando alla crisi dei piccoli negozi “di prossimità” che da tempo sta colpendo la periferia dell’agglomerato urbano cittadino – penso ai quartieri di Lecco, ai piccoli comuni valsassinesi e della valle san martino in primis – merita oltre appunto che una segnalazione e una denuncia anche delle possibili soluzioni. Non mi sottraggo quindi insieme a una necessaria premessa La GDO, la grande distribuzione, con la sua voracità territoriale e l’impatto omologante sugli stili di vita è il modello principe – insieme alle banche – nel rappresentare bene l’ingordigia e le distorsioni del nostro mondo opulento. Qual’è, di norma, uno dei motivi scatenanti per il successo di queste strutture? Cosa spinge masse autome ad affollare strade per riversarvisi? La ricerca della qualità? La varietà? O più prosaicamente l’abbaglio dei prezzi? Io dico che è il prezzo..

Abbassando in modo evidente il prezzo – il più delle volte non significa per nulla un significativo minor costo del prodotto, ma semplicemente una maggior evidenza di quello esposto – si inducono i consumatori ad acquistare ciò che si desidera che essi acquistino. La GDO non consente, infatti, grandi risparmi, ma comunica una sensazione: si sta facendo un affare.  Si sta fregando qualcuno.  Nei supermercati si ha poi la sensazione di disporre di una miriade di oggetti, che nei fatti, mai compreremo. Ma l’obiettivo è raggiunto. Il “senso critico” del consumatore va a farsi benedire paralizzato dalla proposta di “un’occasione eccezionale”.  Imperdibile. Ecco è qui che dovrebbe intervenire la nostra forza di cittadini consapevoli.  E’ da qui, quindi, secondo me che dobbiamo partire per salvare i quartieri, la vita delle periferie e dei piccoli comuni che rischiano altrimenti di spopolarsi e cioè che chi vi ci abita – e chi li amministra – faccia la propria parte. Bisogna evitare che si spengano e si chiudano come l’ultimo negozio ormai divorato dalla concorrenza impari dell’iper. Bisogna creare relazioni sociali stabili. Per questo propongo di istituire in queste realtà di vita quotidiana Gruppi di acquisto solidale – i GAS – una struttura, quindi, alternativa ai soliti canali distributivi oggi appunto dominati dai grandi centri commerciali. Con un vantaggio: questi progetti creano esperienze di autogestione tra eguali.  Il GAS diventa un bene comune, collettivo che necessita di tempo stabile, strutturato e condiviso. Che necessita di partecipazione. Queste realtà di acquisto collettivo dal produttore, andrebbero a rispondere non solo a problemi locali e svolgere un servizio sociale che dovrebbe essere incoraggiato dalle amministrazioni comunali. L’autogestione collettiva dei propri bisogni costa e non è facile. E’ più semplice e “conveniente” mettersi in una posizione subordinata, accettare gerarchie, che stare assieme e decidere insieme. Decidere insieme cosa produrre e come e cosa consumare. E’ meglio trovare deciso tutto da qualcun altro. Ed essere solo esecutori. Restando soffocati dalle decisioni di altri. Condividendo la spesa, gli acquisti dei generi alimentari, per la casa, sostenendo, dove possibile, prodotti e produttori locali, azzerando, il più delle volte, intermediari e ricariche di prezzo, controllando la filiera di ciò che mangiamo e ciò che compriamo, in termine di costi e di qualità probabilmente permetterà di salvare e di rivitalizzare non solo il quartiere, la comunità, ma anche la socialità, l’economia del territorio. In fondo basta poco: un piccolo locale, partecipazione tra eguali, volontà e consapevolezza del proprio valore. Il resto lo si creerà con il tempo, quel tempo che oggi, con l’ultima saracinesca abbassata ci vogliono togliere. 

Lecco 3 gennaio 2007  – pubblicata il 6 gennaio la provincia

a forza di essere vento